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Luglio 26, 2024
FocusMarketing

“Il brand che funziona? Crea associazioni solo positive e trasmette coerenza”

Parla Matteo Luisiani, autore di un libro (Fausto Lupetti editore), consulente aziendale


Marche: sino a pochi decenni fa – come scrive il sociologo Vanni Codeluppi nell’introduzione al suo libro (La Marca, FrancoAngeli, 2023) – “operavano fondamentalmente come delle forme di denominazione dei prodotti e delle imprese. A partire dagli Anni Ottanta del Novecento, invece, hanno cominciato a trasformarsi in un fondamentale strumento attivo all’interno di relazioni che si sviluppano tra imprese e consumatori. Ciò è potuto avvenire perché sono in grado di stabilire dei precisi confini tra quello che appartiene al loro territorio e quello che invece è proprio di altre marche. Dunque, consentono alle aziende di costruire delle potenti barriere simboliche rispetto ai concorrenti, e conseguentemente, di praticare prezzi più elevati e ottenere maggiori guadagni”.

Da alcuni anni giocano un ruolo sociale, condizionando abitudini e creando mode. “Tendono ad essere – continua l’autore autori di contenuti mediatici. Addirittura, si assumono anche il compito di esercitare  delle forme di critica allo stesso sistema economico e sociale capitalistico nel quale operano. Come, ad esempio, Dove, che in tutto il mondo si è schierata contro l’abuso del corpo femminile  nel messaggi pubblicitari e mediatici, oppure Gilette, che negli Stati Uniti contesta da tempo i modelli negativi di mascolinità. O Nike e Adidas che, come molte altre imprese si sino schierate apertamente a favore dei movimenti di protesta antirazzista sorti negli Stati Uniti dopo l’uccisione nel 2020 per soffocamento del giovane di colore George Floyd ad opera di poliziotti bianchi”.

Alcune marche sono riuscite anche ad imporre nuovi comportamenti sociali. Leggi McDonald’s “che – scrive ancora il sociologo – ha diffuso nel mondo il modello del fast food, mentre Kellog’s ha imposto quello della prima colazione basata sui cereali, Dockers promosso la diffusione del Friday wear, cioè del vestire informale il venerdì al lavoro, Starbucks ha insegnato ad apprezzare  la cultura italiana del caffè, mentre Mulino Bianco ha modificato le abitudini degli italiani che prima a colazione non mangiavano spesso biscotti. Pensiamo ai ristoranti Eataly, che ha promosso i piccoli produttori alimentari”.

E oggi che ruolo hanno i brand nelle nostre vite? Cosa ci raccontano e come raccontarli?

Matteo Lusiani, 35 anni, consulente aziendale per strategie di branding e identità di marca, autore del podcast Brandroad https://open.spotify.com/show/3oXp3tpTNobGkuEJlFoh1g– le vie delle marche che l’anno scorso è entrato nel 10% dei podcast più condivisi e seguiti al mondo, secondo Spotify, ha scritto di recente un libro, dal titolo: Il brand, raccontato (Fausto Lupetti editore) in cui sono presenti interviste con esperti del settore: Graziano Grizzanti, Giuseppe Mazza, Lidi Grimaldi, Luca la Mesa, Andrea Semprini, Paolo Iabichino. ll risultato? E’ che non serve una nuova definizione di brand o un altro modello di branding. Ciò che serve è una nuova narrazione.

Ma parliamone con Matteo.

Intanto, c’è differenza tra marca e brand?

Io li uso come sinonimi, ma se analizziamo i contesti d’uso, le espressioni non sono sempre intercambiabili. Diciamo prodotto di marca, ma non prodotto di brand, diciamo Milano è un brand, ma non Milano è una marca. Marca resta legato più all’aspetto commerciale, mentre brand è un termine più vasto. Detto questo, è importante ricordarci che sono solo parole: la loro funzione principale è permetterci di capirci. Vale lo stesso per mission, vision, purpose, essence e altri tecnicismi. Io scelgo di volta in volta le parole che meglio mi permettono di farmi capire. 

Come è cambiato il modo di costruire un brand – l’identità di un’azienda con il suo corpo di valori, ideali- negli ultimi quindici anni? Si può dire che prima il lavoro di branding era concentrato sul prodotto, oggi tutto ruota intorno al consumatore, che ha un ruolo più attivo?

L’affermazione dei social network ha dato ai consumatori qualcosa che prima non avevano mai avuto: una voce. Oggi i brand devono saper ascoltare. È un lavoro in parte umanistico, fatto di sensibilità, e in parte tecnico, perché l’analisi dei dati fornisce indicazioni che mai prima avevamo avuto. Una seconda rivoluzione è stata il riconoscimento del ruolo sociale che hanno i brand. Oggi molti consumatori hanno comportamenti d’acquisto valoriali: non importa la qualità del prodotto, se non rispetti alcuni valori di base che per il pubblico sono importanti.


Nella costruzione di un brand cosa è più efficace fare con il cliente – consumatore: evocare ricordi, stimolare reazioni più immediate visive, uditive, tattili, eccetera? Insomma, il brand vincente quale parte del nostro cervello deve stimolare?

Un brand deve creare delle associazioni positive con idee, emozioni e ricordi, per cui tutto ciò che hai elencato è desiderabile e le aree del cervello da stimolare sono potenzialmente tutte: più si coinvolge una persona, più si viene ricordati. Ma è importante capire quali sono i brand che ci riescono: sono quelli che hanno ben chiaro perché esistono al di là del generare profitti. Fare soldi è un obiettivo legittimo di qualunque azienda, ma se diventa l’unico allora quello  del pubblico sarà risparmiare soldi. Per sottrarsi a questa guerra con il consumatore bisogna trovare un terreno comune, avere obiettivi più profondi e considerare il profitto come una conseguenza. Solo così si arriva a creare associazioni positive.


C’è differenza nella creazione di un brand per una startup e un’azienda avviata?

Sì e no. Sì, nella misura in cui ogni brand è diverso dall’altro. No, perché esattamente come per ogni altra azienda si comincia con delle domande ultime. Bisogna rispondere a domande come Chi siamo? E il lavoro di un consulente è rendere credibili queste domande, stimolare una risposta e poi trarne le conseguenze in termini di branding. In questo senso il mio lavoro non cambia se ho di fronte un’azienda o una startup. E nemmeno se siamo nel B2C o nel B2B.


Quando è bene fare un rebranding? E soprattutto, come farlo?

Un rebranding va fatto quando il significato che si vuole trasmettere al pubblico comincia ad appannarsi, quando il brand non riesce più a suscitare le idee e le emozioni alle quali vuole essere associato. In questi casi è importante capire il perché. Può essere colpa di una visual identity che non è più al passo con i tempi e dà un’impressione datata. Ma si può fare un rebranding anche senza toccare alcun elemento del marchio, semplicemente lavorando sulla comunicazione e sulle azioni del brand per cambiare la percezione del pubblico. Anzi, la maggior parte delle volte è meglio non toccare la visual identity e lavorare sul percepito.


Quali sono gli errori più comuni degli imprenditori nella creazione di un brand? Quanto dovrebbe essere in media destinato all’attività di branding?

L’errore più comune è la ricerca della novità a tutti i costi, perché l’aspetto più importante per coltivare un brand è la coerenza. Serve avere ben chiaro cosa non deve cambiare mai nel mio messaggio. La creatività serve a dire la stessa cosa in modi sempre nuovi. Per quanto riguarda gli sforzi da dedicare, Les Binet, uno dei più grandi esperti in questo campo, suggerisce un rapporto di 40 a 60 tra operazioni di attivazione dei clienti che danno risultati nel breve periodo e operazioni sul brand che danno risultati sul medio-lungo periodo. Nel mio piccolo, credo sia un ottimo suggerimento.


Come si costruisce un brand? Da dove si parte? E quali sono i passaggi successivi?

Quando Satya Nadella è diventato il terzo CEO nella storia di Microsoft, nel 2014, ha preso in mano un’azienda in difficoltà, con un brand che stava perdendo valore da oltre dieci anni. La prima cosa che ha fatto è porre domande ai manager e ai dipendenti, domande come Cosa andrebbe perso nel mondo se Microsoft scomparisse? La risposta che ha trovato è: Noi esistiamo per dare più potere alle persone, in inglese We exist to empower others. Capire perché esiste è il primo passo che ogni brand deve compiere. Come mi ha raccontato Maurizio Abet, senior vice president di Pirelli, quando Pirelli ha intrapreso un lavoro sul proprio brand è stato come portare l’azienda dallo psicologo. Dopodiché bisogna tirare le somme e capire come comunicare quella risposta in tutto quello che l’azienda fa, dai prodotti, alla comunicazione, alla responsabilità sociale e via dicendo.


Brand e storytelling: che mi dici?

Che bisogna sapere quando usarlo e quando no. A volte le persone cercano delle informazioni su di te e in questi casi una storia sarebbe solo di disturbo. Come ha detto il filosofo contemporaneo Byung-chul Han: Le informazioni sono additive, non narrative. Si possono contare ma non raccontare. Solo le narrazioni generano senso e tenuta. Quando l’obiettivo primario è coltivare quel terreno comune di valori ed emozioni che il brand condivide con il pubblico allora lo storytelling diventa uno strumento indispensabile. 


Quanto i social possono aiutare a veicolare un brand?

Moltissimo, a patto che ci si ricordi che sono luoghi di interazione. Non si tratta di pubblicare un contenuto al giorno, ma di instaurare una conversazione con il pubblico, presidiando i commenti e portando sempre il tono di voce del brand.


Funziona un brand che parli in modo negativo di un prodotto? Cattura l’attenzione?

Non funziona. Mai. Il fatto che anche la pubblicità negativa sia pubblicità è una delle più grandi bufale di questo settore. Una comunicazione provocatoria può nel migliore dei casi farti diventare top of mind in una certa categoria, ma oggi sappiamo per certo che essere ricordato non significa essere preferito. Per essere preferito, e quindi scelto, bisogna instaurare associazioni positive.

Cinzia Ficco

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