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Novembre 20, 2024
Management

“Tra manager e proprietà servirebbe un patto etico”

Parla Mario Rosso, manager in aziende come Fiat, Olivetti, Tiscali, Telecom


“Accettai, senza passione, di essere prestato al management, senza lontanamente sospettare che non sarei mai stato restituito al mittente. E dunque sono stato un manager, anzi meglio, ho fatto il manager”.

Così Mario Rosso, romano, laureato in Filosofia teoretica all’Università di Torino con una lunga esperienza da manager, che ha raccolto in un libro pubblicato di recente da Guerini, intitolato “Le cattedrali dell’Industria” e che ha voluto condividere con Aziendatop.it, soffermandosi sui momenti più complessi. 

Prima in Olivetti, poi negli anni Settanta – quelli del terrorismo, in cui si contavano duemila attentati l’anno – entra nella direzione del personale  del Gruppo Fiat. Per la famiglia Agnelli si trova a gestire i rapporti con le istituzioni e il mondo politico in epoca Tangentopoli. In Telecom partecipa da posizioni di vertice al drammatico scontro azionario dell’Opa.

E’ stato amministratore di Tiscali, un’azienda che dalla Sardegna ha fatto la storia di Internet in Italia.

Ironico, a volte graffiante, ma con un eloquio pacato, mi ha raccontato con grande disponibilità quello che leggerete.

Intanto, partiamo dalla copertina. Un titolo e una foto di copertina un po’ inquietanti.

No, nessuna intenzione di intimidire o allarmare. Il titolo allude all’imponenza delle grandi aziende, alcune, come la FIAT, istituzioni totali, nelle quali ho fatto, sia pure da infiltrato, le mie esperienze. Ma anche un aggancio alla profondità e serietà del loro contenuto umano.

“Un filosofo che non è stato un manager, ma ha fatto il manager”. Così si definisce. Un po’ come Tatò, un po’ come Marchionne? 

Devo fare un breve distinguo. Ci sono due modi in cui management e filosofia si mescolano. Il primo è quando il manager, sulla base di studi di Filosofia, ne acquisisce i valori e le capacità: profondità di pensiero, ampiezza di visione, bilanciamento di logica e intuizione, profonda comprensione degli uomini e delle loro complessità. E poi li usa come strumento di gestione, direi quasi come la finanza, la pianificazione. In questo caso si rimane manager al 100%. E’ questo il caso di chi sa usare la straordinaria forza del modo di pensiero e dell’approccio filosofico. Un fortissimo asset che comunque, in sé rappresenta una differenza professionale e gestionale imbattibile. Il secondo modo si realizza quando un uomo di cultura e temperamento filosofico, coerentemente con i suoi obiettivi personali si applica per realizzare se stesso e i suoi valori, etici, sociali, appunto facendo il manager.

Per sintetizzare?

E’ il manager che sa usare la filosofia contro il filosofo che usa il management. Tatò lo collocherei senza dubbio nella prima categoria, Marchionne anche, ma con qualche contaminazione. E io, senza enfasi, nella seconda. Non credo vi siano molti altri elementi che potrebbero accomunarci. Solo con Marchionne, che ho conosciuto poco di persona, ma molto attraverso chi ha lavorato con lui, ho la sensazione che avremmo potuto condividere qualcosa: la sofferenza e gli invincibili turbamenti interiori del mestiere, spesso esercitati in quella speciale solitudine, che è uno dei pesi più duri della professione. Questo, fatte le dovute proporzioni, forse, sì, ci accomuna.

In molte sue situazioni complesse i due avrebbero preso le sue decisioni “filosofiche” ?

Se parliamo delle decisioni normali, di routine o comunque non critiche, penso che sostanzialmente ci saremmo trovati d’accordo. In altre situazioni molto più tese, o con profonde implicazioni strategiche e talvolta esistenziali, penso proprio di no. Le faccio un esempio.

Prego

Quando in ANSA cominciò a profilarsi un crescente disaccordo tra me e alcuni consiglieri di Amministrazione su scelte strategiche e concrete decisioni di gestione, io non volli accettare alcun compromesso e testardamente portai la situazione fino alla rottura. Ritenni di dover prendere la decisione giusta per l’Azienda in sé. Sono certo che i miei colleghi avrebbero agito diversamente, pragmaticamente, con la lotta e il compromesso. E non mi sento di dire che avrebbero sbagliato.

La filosofia basta per fare un manager? O è sempre bene farsi prima un bagno di realtà, partendo da livelli più bassi?

L’ultimo libro di Mario Rosso

Certamente. Le garantisco che gli insegnamenti di Platone, Spinoza,  Kant, per quanto profondi e ispiratori, mi sarebbero serviti a ben poco, se non avessi avuto la concretezza delle mie esperienze su cui applicarli. Solo quando ti devi misurare con la fonderia, il terrorismo, il vandalismo della finanza spregiudicata, la durezza delle ristrutturazioni, le ambizioni, i  tradimenti, i confronti diretti con culture sempre difficili – per esempio di Paesi come India, Cina, Turchia, allora, sì, che l’atteggiamento e la modalità di pensiero filosofico esprimono la loro enorme capacità di potenziamento della qualità gestionale e decisionale. Senza il bagno di realtà, quella vera, per quanta filosofia tu ci possa mettere si rischia di produrre nient’altro che traballanti teorizzazioni da manualetti per aspiranti manager. Tutta aria fritta, e ce n’è tanta in giro. Forse è questo il vero significato del famoso motto, quasi anonimo, del “primum vivere, deinde philosophari”. Studia pure filosofia, ma prima di farti filosofo, vivi la tua vita reale.

Chi è secondo lei il buon manager? Ha un modello?

No, non credo ai modelli. Tra gli stili di management non ci sono quelli giusti o sbagliati, i buoni o cattivi, rozzi o eleganti. Ho visto gestire fasi strategiche e settori di business totalmente simili, con gli stessi successi, stili manageriali e modelli di leadership completamente diversi: visionario o autoritario, partecipativo o burocratico, democratico o accentratore. Repressivo, anche. La condizione? Ognuno di questi deve essere messo in esecuzione e governato correttamente. E poi in realtà gli stili di management non esistono. Esistono solo le donne e gli uomini, e il loro unico, personalissimo, inesplicabile modo di esserlo. Come un pittore può essere di scuola impressionista, astrattista, preraffaellita o cubista, fauve o futurista. Se conosce la tecnica e la usa correttamente, il capolavoro può sempre arrivare.

Invece, chi è il bad manager?

Dipende. Esistono tanti modi di essere bad manager, quanti ce ne sono di essere buoni manager. Difficile scovarli, perché spesso si rivelano solo a posteriori, a danni fatti. O magari, raggiungono risultati nel breve, e poi lasciano dietro di sé macerie, economiche, sociali, umane. Il fatto è che dietro un bad manager molto spesso c’è un bad man, o forse meglio un worthless individual, persona di poca sostanza, con  vizi, debolezze, carenze, insicurezze, narcisismi mal dissimulati, diffidenze e senza capacità di fare autocritica. A un bad manager direi: rifletti su te stesso –nosce te ipsum”- e non dimenticarti mai che si è sempre uomini, prima che manager.

Qual è stata l’esperienza più dura?

Prima di rispondere, devo precisare che molte delle mie esperienze hanno attraversato momenti difficili, dal punto di vista professionale e personale. Ma questo non vuol dire che siano state sgradevoli, frustranti inutili, negative. Anzi, le storie più ardue e tormentate sono state spesso quelle che si sono rivelate più ricche di apprendimento e soddisfazioni. Tra tutti, l’incarico in Tiscali è stato quello più aspro e laborioso. La coincidenza di tremendi fattori di complessità, il settore Internet e Telco in profonda incertezza, il mercato M&A pietrificato, il crollo delle Borse, la crisi subprime. Tutto questo appena assunta la guida di una azienda, peraltro bellissima, la Tiscali, già in grave crisi.  Mentre ci si misurava con il governo di molteplici variabili – che parevano indomabili- proprio nei momenti peggiori, ovunque ti guardassi, non avevi che nemici. O glaciali indifferenze. Indimenticabile.

La più entusiasmante e la più formativa?

La più formativa è stata sicuramente l’esperienza FIAT. Non solo perché è stata quella che mi ha introdotto e plasmato nel mondo industriale. Allora la FIAT, per quasi vent’anni, tra la fine degli anni ’60 e metà degli ’80, è stata l’Accademia del management, in Italia, con un meccanismo di durissimo e rigoroso training on the job, completato poi da scuole direzionali di altissimo livello. Come la famosa ISVOR di Marentino. E tutte le aziende allora avevano centri di formazione di primissimo livello: assieme a FIAT, Olivetti, Enel, Montedison, SIP e tanti altri. Poi arrivarono le crisi, e tra le prima spese da tagliare, i grandi guru delle strategie sacrificarono brutalmente gli investimenti in formazione. Lungimiranti. Quanto alla capacità di entusiasmarmi, nulla può reggere il confronto con la New Holland, che mi ha letteralmente spalancato il mondo di fronte, consentendomi esperienze manageriali e umane in moltissimi Paesi in tutti i continenti. Ma posso dire di avere veramente amato tutte le aziende nelle quali ho vissuto. La preferita? Alla fine forse l’ANSA. O la Tiscali, ma anche La Rinascente, la Fiat.

Qual è il rapporto che ci dovrebbe essere tra l’imprenditore e il manager?

Credo fermamente che al momento della nomina di un, anzi DEL top manager di una azienda, il Contratto economico e la formale attribuzione dei poteri non siano sufficienti. Servirebbe prima un contratto psicologico, tra proprietà e management, e specialmente una sorta di contratto etico, perché dal momento in cui la proprietà affida l’azienda al management, questi la vive come una entità con i suoi diritti, un valore in sé. Se l’accordo di fondo, più o meno esplicito, sulla sicurezza dell’azienda manca, la strada si farà accidentata e alla fine cieca.

Hanno sempre accettato i suoi consigli?

Proprio sempre, non potrei dirlo. Nella maggior parte dei casi direi di sì. Diciamo al 60%. Del restante 40%, per la metà i miei consigli non sono stati seguiti a ragion veduta,  ma nell’altra metà sono stati ignorati o rigettati senza approfondimenti, confronti, motivazioni, e magari con tardivi e mai confessati, pentimenti. Ma è normale e  giusto che sia così.

Cosa succede quando un imprenditore si fa manager? Che costi sopporta l’azienda?

Un po’ imprevedibile. Nella mia esperienza i rischi e gli svantaggi sono stati generalmente superiori alla creazione di valore addizionale che l’imprenditore riesce a generare, specie nei processi operativi, nella gestione delle risorse, nella stabilità del posizionamento e nelle coerenze strategiche. Due approcci e logiche di pensiero che stridono, si respingono, malamente si armonizzano. Quando però, grazie alla qualità speciale delle persone, il meccanismo funziona, produce casi di assoluta eccellenza. Dopo l’uscita da Tiscali ho collaborato per un paio di anni con la società Almaviva che, fondata e guidata da Alberto Tripi, ha avuto tassi di crescita e sviluppo di assoluta eccellenza a livello mondiale. Il segreto? Un sistema di valori cristallino, una coerenza imprenditoriale e manageriale impeccabile, una visione strutturata e condivisa dalla family ownership. E attenzione totale alla qualità e motivazione delle persone.

L’azienda  per cui avrebbe voluto lavorare?

Forse ho visto troppo per avere altri desideri. Mi ha sempre interessato, ma senza trasporto passionale, ENEL. Ho ammirato il modo in cui è gestita. E mi stimolava la crucialità del suo posizionamento, la dominanza strategica del business. Se tornassi indietro, molto indietro, studierei giapponese e cercherei di lavorare in un’azienda del SOL Levante, dove l’integrazione tra valori, cultura, tecniche e tecnologie raggiuge livelli di assoluto valore, a suo modo, filosofico. Un manager Zen. Mi sarebbe piaciuto.

Fare il manager oggi è più o meno facile grazie all’Ai e agli algoritmi?

L’Ai entra in modo tumultuoso per potenziare i processi operativi, di analisi, ricerca, offrendo al manager opportunità, alternative, idee, in quantità e qualità inconcepibili solo pochi anni fa. Questo fa cambiare radicalmente il mestiere dei professional e del middle management, non sempre in peggio. Ma la transizione non sarà indolore. L’alto manager, invece, in gran parte scaricato del peso delle fasi di analisi, diagnosi, generazione di alternative, si trova tra le mani il compito più difficile, di come dominare l’Ai , invece di esserne, magari senza saperlo, plagiato e dominato. Cosa fare? Discriminare, nell’assalto dell’overflow, le priorità, scegliere l’essenziale, arricchire, fare la differenza con il valore aggiunto della comprensione profonda, arrivando alla sostanza dei problemi, decidendo e assumendosene la responsabilità. Oggi la sinderesi, la facoltà secondo la quale, per i filosofi medioevali, l’uomo può riconoscere immediatamente il vero dal falso, il giusto dallo sbagliato, non è più un dono mistico, ma la nuova decisiva skill manageriale. In Italia ci sono molte buone e ottime Università, capaci di fornire eccellenti dotazioni tecniche professionali e culturali, e molte aziende, anche medie o piccole, che funzionano molto bene come palestre di addestramento alla gestione vera e propria. A patto che poi, in palestra, non si abbia paura di infilarsi i guantoni, scendere sul ring, e impegnarsi, buttarsi. A costo di scendere dal ring con un occhio nero. Ma sa qual è la nostra vera palestra? Senza retorica, è l’Italia stessa, con la sua storia incomparabile, migliaia di anni di bellezza, creatività, civiltà, passioni e ingegno, determinazione e poesia, ambizioni e cultura. Tutto questo dà ai giovani e promettenti manager italiani delle capacità, delle doti che, come ho potuto verificare a fondo, gestendo manager di tutto il mondo, danno loro un vantaggio competitivo, un’ assoluta eccellenza nel problem solving, nella creatività, nella intuizione anticipatrice, nella flessibilità,  nella capacità di lavorare in simultaneous everything. Quello che ho chiamato il Genio Italico nel Management. Eppure mi chiedo: Perché non dominiamo il mondo? Perché a livello collettivo, non ci interessa. E va bene così”.

Cinzia Ficco

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