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Dicembre 3, 2024
Focus

Smart working: “La seconda stagione. Che sia quella della scelta”

Parla Luciana de Laurentiis, Head of Corporate Culture & Inclusion in Fastweb, autrice di un libro


Lavoro agile: a che punto siamo?

Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milanotre milioni e seicentocinquanta mila è il numero di chi si ipotizza lavorerà in modalità flessibile in Italia quest’anno. In Italia nel 2023, gli smart worker si sono attestati sui 3,585 milioni. La crescita, pur leggera rispetto ai 3,570 milioni del 2022, si rivela importante, se paragonata all’epoca pre-pandemica, quando erano solo 570mila circa: siamo al 541% in più.

Sono le grandi imprese italiane a occupare il maggior numero di lavoratori da remoto, circa 1,88 milioni, grazie a formule strutturate di smart working in via di estensione anche a figure professionali più operative e tecniche, precedentemente non ancora coinvolte. Le Pmi, vero tessuto connettivo dell’economia italiana, adottano forme flessibili di lavoro da remoto nel 56% dei casi e hanno aumentato lievemente il numero di smart worker, arrivati a 570mila nel 2023, comunque solo il 10% del totale.

“Siamo alla seconda stagione e rischiamo di perdere quest’altra opportunità per cambiare paradigmi organizzativi, leadership, forme di collaborazione.  Se in epoca pandemica siamo stati costretti a remotizzare il lavoro pur non disponendo di dotazioni tecnologiche valide, oggi abbiamo gli strumenti digitali, ma in molti casi manca ancora la cultura della flessibilità intelligente. Si pensa che si debba scegliere solo tra due opzioni: o tutti in ufficio, o tutti a casa. Ma smart working significa prevedere di poter scegliere tra varie possibilità a seconda delle necessità dell’azienda, dell’organizzazione, del singolo lavoratore o della singola lavoratrice”.

A dirlo, Luciana De LaurentiisHead of Corporate Culture & Inclusion in Fastweb, che si occupa di smart working dal 2014, è diventata smart worker dall’anno successivo e di recente ha pubblicato con FrancoAngeli un libro su come arrivare a lavorare in modo intelligente.

“Smart working – chiarisce – espressione arcinota e per questo forse un po’ abusata – non significa semplicemente lavorare da casa, ma scegliere nuovi comportamenti, sviluppare nuove competenze, dimostrare che un altro modo di lavorare è possibile. Il tempo del lavoro nuovo è arrivato e non deve passare inutilmente. Quello che forse non si è ancora capito è che il lavoro diventa davvero smart se prevede forme di alternanza tra i possibili luoghi di lavoro e discrezionalità di tempo e spazi. Ho scritto questo libro perché ho osservato che in alcune organizzazioni, aziende private e nella Pa rispetto alla pandemia si è fatto prima un passo avanti, poi uno rilevante indietro.  Alcune imprese hanno concesso delle formule di flessibilità che non si sono modellate sulle esigenze dei lavoratori. E hanno creato maggiori vincoli. Certo, c’è  chi, non solo in epoca pandemica, approfitta di questa flessibilità, ma quel tipo di persona non lo recuperi controllandolo in ufficio.  Del resto,  sono passati tanti secoli da quando a Firenze Cosimo I dei Medici, granduca di Toscana, fece costruire gli Uffizi, accorpando gli uffici amministrativi e giudiziari del capoluogo toscano per accentrare il potere anche materialmente in un’unica sede, dove tenere le persone vicine a sé per influenzarle  e controllarle Si tratta ora, come ho già detto, di rendere concreta la vera possibilità di scegliere e far scegliere la condizione ideale per sé, la famiglia e l’azienda. Me ne rendo conto: c’è una naturale resistenza, non è facile mollare il controllo. Lo smart working richiede infatti fiducia, responsabilità, capacità di agire in autonomia reciproche e cedere lo scettro è complicato anche nelle aziende più virtuose. In Fastweb, per esempio, si è adottata una flessibilità trimestrale per cui si possono pianificare e svolgere i 2/3 di giornate da remoto ed 1/3 di giornate in sede  E si è più produttivi perché più ingaggiati, oltreché ascoltati”.

Lo smart working, si sa, ha dei costi. Intanto ha bisogno di un diverso mindset, quindi una leadership più adattiva, capace di assegnare obiettivi e pronta a chiedere e fornire feedback continui, ascoltare  monitorare con soluzioni diverse. Ma richiede anche una responsabilizzazione individuale di chi lavora in smart working, richiede che il personale abbia cellulare e pc aziendale, e che si disponga di un sistema di accesso sicuro. Ma il lavoro intelligente rende un’organizzazione più snella, più capace di attirare talenti multigenerazionali, consente un risparmio energetico e una riduzione dell’impatto ambientale, di costi operativi relativi a spazi e postazioni. Regala soprattutto una maggiore soddisfazione e fidelizzazione dei dipendenti. Si abbassano così assenteismo e turnover. Ancora. Si è dimostrato che con lo smart working la produttività se non aumenta, non regredisce, al massimo rimane uguale”.

E’ importante a questo proposito capire che per permettere il lavoro intelligente bisogna superare il digital divide, cioè la mancanza di connessione di alcune parti del Paese.

“Certo – aggiunge la coach, esperta anche di comunicazione interna- ci possono essere spazi di coworking o  soluzioni e sedi aziendali più vicine alla mia abitazione da poter sfruttare. Ma è bene che il Paese superi questo limite”.

Spesso l’imprenditore dice “Da noi non va bene, nel nostro contesto non è utile, il nostro è un settore diverso”.

“E’ vero – replica de Laurentiis-  l’idea dello smart working applicato al mondo manifatturiero e del commercio sembra per molte persone e aziende un modello irrealizzabile, perché questi sono ritenuti settori in cui la presenza fisica è irrinunciabile. Ma si può obiettare che in alcune realtà le mansioni di responsabile di magazzino possono essere svolte in parte da remoto, se esistono strutture digitali a cui appoggiarsi per recuperare dati, digitalizzare i processi, controllare e agire da remoto sulle piattaforme. E così nelle aziende manifatturiere dove le ispezioni manuali si possono sostituire con soluzioni digitali. La questione dirimente quindi è soprattutto culturale perché la tecnologia si può adottare, comprare. Come convincere gli imprenditori? Posso non convincerli, non si possono obbligare, ma la pandemia ci ha fatto vedere che altri modi di lavorare sono possibili. Solo che quattro anni fa non eravamo liberi di scegliere. Non siamo forse ancora pronti alla dematerializzazione totale dei luoghi di lavoro, perché lavorare fisicamente insieme ad altre persone permette uno scambio di emozioni che non puoi avere  da remoto. Ma è tempo di far intravedere la possibilità di un reale cambiamento. Lo smart working insomma deve portare vantaggi reciproci. Non si può scegliere solo perché evita di pagare la benzina, ma perché concede tempo da dedicare a me, alla famiglia, alla comunità di cui faccio parte, ai miei interessi”.

Serve ritoccare la legge del 2017 che lo norma? “Non è questo il punto principale – risponde – perché il rapporto tra azienda e lavoratore è ben disciplinato e prevede un accordo individuale. C’è però da cambiare  la narrazione. Non si può continuare a dire che lo smart working sia utile solo per determinate categorie, tipo le neomamme o quelle incinte. Serve anche  agli uomini, per godere di un diverso equilibrio vita-lavoro e per riequilibrare i carichi di cura, oggi quasi tutti sulle spalle delle donne. Inoltre ciò che andrebbe rivisto è l’esempio. La PA è una di quelle realtà che non ha gestito l’evoluzione: durante la pandemia ha trasformato in modo emergenziale lo smart working in telelavoro, che è cosa diversa, e in seguito pochissime amministrazioni l’hanno effettivamente adottato in maniera stabile e strutturata. Anche a livello individuale è necessario essere di esempio, con una forte responsabilizzazione e anche  un’autodisciplina nel ricorrere al lavoro intelligente: lo smart working non può portare all’ overworking, ma alla capacità di trarre vantaggio personale e professionale dalle nuove forme di flessibilità del lavoro”.

Cinzia Ficco 

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