Lo dicono le due autrici di un libro recente che invita ad abbandonare pratiche aziendali giurassiche
Quanto incide il #badmanagement sulla salute e quindi sul rendimento dei dipendenti a lavoro? Come si raggiunge la felicità dietro una scrivania e quanto peso ha il benessere professionale su quello privato?
A queste domande provano a rispondere Daniela di Ciaccio (Formia, 1978), sociologa, imprenditrice, insegnante di yoga e ricercatrice e Veruscka Gennari (Latina, 1974), filosofa, imprenditrice, divulgatrice e studiosa, entrambe fondatrici dell’Institute for Positive Organization (www.ipo.it) e di 2BHappy, ideatrici della prima certificazione italiana in Chief Happiness officier (www.chiefhappinessofficier.it), autrici di un libro #StopJurassic Management -Persone, ambienti e cultura del lavoro – il terzo, pubblicato di recente (FrancoAngeli/Trend) in cui affrontano il tema della salute a lavoro che può anche essere misurata.
“Ci occupiamo di sviluppo delle persone e delle organizzazioni da più di vent’anni raccontano – Dal 2015, anno in cui abbiamo fondato 2BHappy Culture Company, ci siamo dedicate a divulgare il concetto della scienza della felicità e delle organizzazioni positive sia attraverso la pubblicazione di libri, sia trasferendo know how per costruire ambienti di lavoro felici. Osserviamo e denunciamo i fenomeni della demotivazione dilagante e dell’abbandono silenzioso da sempre, ma ci sembra di essere arrivati ad una situazione ormai davvero insostenibile per la salute delle persone e dell’intera economia, se pensiamo che in Italia solo il 5% dei lavoratori è coinvolto nel proprio lavoro. Ciò significa che il restante 95% va avanti per inerzia, o peggio, odia il proprio lavoro, i propri manager, le proprie aziende. Crediamo sia giunto il momento di dire basta non solo a pratiche di lavoro giurassiche, ma anche all’analisi dei dati e alle parole senza azione. Occorre risolvere subito questa situazione”.
“Per fortuna è venerdì, oddio domani è lunedì, vorrei mollare tutto e aprirmi un chiringuito, preferirei essere pagato meno ma cambiare capo o avere 10 ore di tempo in più, non ce la faccio più, se non avessi un mutuo o dei figli da mantenere mollerei tutto…”.
Queste sono le frasi tipiche di chi a lavoro non si sente a proprio agio.
A sentire Danila e Veruscka “non c’è un profilo tipico del lavoratore infelice. Sono allo stesso modo donne e uomini, giovani e adulti, di ogni settore, pubblico e privato. Questo perché è una questione di mindset, visioni del mondo, di modelli mentali, tipo: prima il dovere e poi il piacere, abbiamo sempre fatto così, il lavoro è sacrificio, le persone sono scansafatiche, io sono il capo o il proprietario quindi decido io.
Ma è tutta una questione di manager pessimi, giurassici, che continuano a chiedere iperprestazioni in tempi limitati, non mettono al centro il lavoratore e la sua salute?
“Il management giurassico – spiega Daniela – coinvolge tutti: manager, collaboratori, proprietà, CDA. È chiaro che il manager ha una buona fetta di responsabilità poiché è nella condizione organizzativa di poter influenzare con i propri comportamenti e le proprie capacità la vita lavorativa quotidiana delle persone che coordina. Uno degli indizi più facili da osservare per intercettare un bad manager è la quantità di IO rispetto a NOI che pronuncia nelle più svariate situazioni lavorative. È vero anche che, molto spesso, i sistemi di performance management nelle aziende si basano sulla legge di Peter, ossia faccio crescere i più bravi (spesso i tecnici) fino al loro massimo livello di incompetenza spesso in ruoli manageriali. Questo ragionamento, che diventa poi processo, è fallace perché presuppone che persone competenti nel sapere tecnico siano per loro natura anche competenti nel sapere relazionale. Le attitudini personali, per questo tipo di ruolo, si devono nutrire, allenare e formare. Non vengono fuori in modo naturale, se naturalmente non le possiedi. In questo senso è un errore correlare la crescita – con tutto quello che consegue in termini di potere denaro, status con i ruoli manageriali. Ma non mancano poi i lavoratori e colleghi di tipo giurassico, persone che sguazzano nel jurassic management, che non hanno alcun interesse verso il lavoro o senso di responsabilità verso se stessi e i colleghi. Sono quelli che adottano comportamenti di tipo opportunistico, criticano, giudicano, si lamentano, alimentano il gossip. Ecco loro sono tossici tanto quanto i manager giurassici”.
“Dall’ultima indagine di Gallup – aggiunge Veruscka – rispetto ad una media globale del tasso di engagement del 23% abbiamo Stati Uniti e Canada intorno al 30%, l’Europa al 15% e l’Italia appunto al 5%, un dato davvero drammatico”.
C’è un’azienda italiana che si è svecchiata a partire dal manager? “Ci piace sempre raccontare il percorso di Servizi CGN – replicano – che più di dieci anni fa ormai ha deciso di cambiare rotta rispetto a comportamenti organizzativi che stavano generando inefficienze e malessere ed ha intrapreso un percorso di evoluzione, partendo proprio dalla formazione personale e dallo sviluppo della consapevolezza dei vertici dell’azienda per proseguire a cascata su tutti i collaboratori”.
Ma da quanto scrivete, non è tardi per cambiare. Del resto, il nostro cervello è plastico.
“Certo – ancora Veruscka – Il primo passo è dare cittadinanza alla consapevolezza che i risultati di business saranno sempre e più indissolubilmente correlati al benessere delle persone e che questo benessere, nelle organizzazioni, si garantisce disegnando culture organizzative e processi efficaci, efficienti ma anche positivi, in grado cioè di generare in modo organico e disciplinato chimica positiva, nutrire il capitale sociale e la consapevolezza in ogni sua forma”.
“Bisogna disimparare innanzitutto – rimarca Daniela- la falsa credenza secondo cui ad una certa età anagrafica o di esperienza organizzativa non si possa cambiare perché appunto il cervello è plastico e con una giusta intenzione e una consistente disciplina possiamo imparare qualsiasi nuova cosa. Bisogna lasciar andare i modelli mentali del prima il dovere e poi il piacere, vince il più forte, siamo ciò che possediamo, cosa facciamo o come appariamo e imparareche funzioniamo meglio quando siamo in grado di creare, per noi e per gli altri,condizioni di benessere fisico, mentale, psicologico, sociale che favoriscono creatività,appartenenza, predisposizione all’apprendimento, empatia. Si può imparare che il capitale sociale, e quindi la capacità di creare relazioni sane, di fiducia, autentiche, è la nostra più grande risorsa di longevità”.
Ma da dove partire?
Le due imprenditrici non hanno dubbi: “È necessario ancora di più imparare ad intercettare bisogni, talenti, proposito personale e dei nostri collaboratori perché solo coltivando la consapevolezza avremo persone in ogni ruolo e posizione della società, non solo delle aziende, capaci di prendere decisioni intenzionali, allineate e coerenti. Bad manager da riformare? Non c’è nessuno da riformare perché l’evoluzione è un processo naturale e spontaneo che ad ogni modo ha sempre fatto e continuerà a fare il suo corso. C’è bisogno di disinnescare e non premiare o tollerare più comportamenti disfunzionali. I segnali che è arrivato il tempo di interrompere alcune pratiche manageriali – che abbiamo definito giurassiche- sono sotto gli occhi tutti. Non si tratta di comportamenti o modelli giusti o sbagliati in assoluto, ma di scelte più o meno funzionali ed efficaci rispetto ai tempi che oggi viviamo. La responsabilità di osservare questi segnali e scegliere di cambiare è dunque di ciascuno di noi, in primis di chi in azienda è in ruoli in grado di influenzare comportamenti, culture e processi, ma ognuno risponderà nel momento in cui sarà pronto. L’intento del nostro lavoro e di questo libro è facilitare questo risveglio, mostrando le soluzioni e i percorsi possibili”.
Dite che il lavoro in azienda con nuovi e preparati managers diventerà una questione di joule.
“Ci auguriamo – ancora Daniela – che avvenga un passaggio culturale dalla gestione del tempo alla gestione dell’energia. Se continuiamo a misurare il valore delle persone dalla quantità di ore che spendono in ufficio continueremo a sentire frasi come “esco alla 17. Che fai mezza giornata?” le quali alimentano solo il fenomeno del quiet quitting o del presentismo privo di motivazione, senso e produttività. Oggi sappiamo dalla scienza che creatività, performance e produttività dipendono dalla nostra capacità di impiegare in maniera consapevole e focalizzata le energie e che le energie, a differenza del tempo sono risorse che possono essere rigenerate con le dovute pratiche. I bad manager fanno più male di una dieta a base di patatine fritte, i costi più visibili sono quelli che le statistiche e anche i media generalisti ormai raccontano senza sosta: peggioramento degli indici di salute mentale, stress e burnout; aumento delle dimissioni volontarie; aumento costante del numero di persone che dichiara di voler cambiare lavoro entro un anno ma anche costi dovuti a turnover, incidenti, errori in qualità, cali di produttività”.
La felicità al lavoro è diversa da quella personale? Come si possono mettere insieme tante felicità diverse in un’organizzazione? “La felicità – chiarisce Veruscka- è una competenza che si può allenare sia con le persone sia con le organizzazioni e le società. Il modo più semplice per farlo è coltivare quelli che noi abbiamo distillato come i 4 pilastri: o +chimica positiva e – chimica negativa, cioè maggior spazio ad attività e pratiche che innescano gli ormoni del benessere piuttosto che il cortisolo o ormone dello stress; o + essere e – fare/avere, ossia maggior spazio alla consapevolezza di proposito, bisogni, valori piuttosto che inseguire acriticamente aspettative esterne e identità fondate sul potere e lo status; o + noi e -io, cioè dare spazio alla costruzione di una rete sociale di supporto e investire in relazioni basate sulla fiducia e l’autenticità; o + disciplina e – caos, ossia intercettare il proprio rituale di benessere capace di soddisfare i tre principi precedenti e rimanere saldamente ancorati ad esso con costanza e amore per cablare la nostra mente alla felicità e farla diventare un’abitudine. Questi stessi 4 pilastri orientano oggi l’azione delle organizzazioni positive che cercano di integrarli in ogni processo, pratica e comportamento, dalla ridefinizione della cultura agli stili di leadership. La tecnologia è uno strumento che, se guidato e usato con sapienza, sicuramente può essere un vantaggio. Pensiamo, ad esempio, alle app che possono aiutarci nel seguire programmi di allineamento di nuove routine o abilità, oppure alle tecnologie che aiutano a connetterci, lavorare insieme o ad apprendere facilitando il lavoro da remoto o lo smart working quando sono introdotte avendo costruito una base culturale forte e orientata alla fiducia reciproca, al lavoro per obiettivi, al feedback continuativo e autentico”.
Ad alcuni viene l’orticaria quando si parla di felicità a lavoro: per dimostrare che la felicità in azienda non fa a botte con la matematica e gli utili, mi date alcuni numeri – parametri per dire che un’azienda ha raggiunto la felicità?
“Coltivare la felicità è un percorso – concludono – non esistono organizzazioni positive al 100% così non esistono organizzazioni negative al 100%. Le organizzazioni sono organismi viventi fatti di persone che cambiano e inserite in un contesto esterno anch’esso soggetto a fluttuazioni continue. Quello che sappiamo e abbiamo osservato di alcune organizzazioni – che hanno attraversato lunghi periodi e crisi interne ed esterne, come ad esempio la pandemia da Covid 19- è questo dato: organizzazioni che hanno investito strategicamente e consapevolmente sulla felicità e sul benessere delle persone e sul territorio su cui operano, hanno superato le crisi senza ripercussioni su fatturato, livelli di engagement, numero e soddisfazione dei clienti. I numeri? Riportiamo fonti Gallup del 2019: 81% in meno di assenteismo; 64% in meno di incidenti; 43% in meno di turnover; 41% in meno di difetti in qualità̀; 66% in più di benessere delle persone; 23% in più̀ di profitto; 18% in più̀ di produttività̀ (vendite); 10% in più̀ di customer engagement; 13% in più di cittadinanza organizzativa (partecipazione)”.
Cinzia Ficco