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Maggio 14, 2024
Focus

“Italia 2045: saremo meno, ma più felici. Intanto, riduciamo la spesa assistenziale”

Parla Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, autore di un libro


Stiamo superando davvero i limiti che il pianeta ci concede? E nel contempo, possiamo permetterci di rallentare? Se non produciamo, quindi se non creiamo ricchezza, posti di lavoro, come possiamo sperare che il nostro Paese non deflagri con il suo debito stellare e perda credibilità sui mercati esteri? Se le politiche nazionali strizzano l’occhio ai più anziani e non favoriscono i giovani, chi sosterrà il sistema pensionistico?  

La redazione di Aziendatop ha girato queste domane ad Alberto Brambilla, che presiede il Centro Studi e Ricerche  Itinerari previdenziali, ex presidente del Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale presso il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, sottosegretario  di Stato al Ministero del Welfare con delega Previdenza Sociale, e consigliere economico alla Presidenza del Consiglio dei ministri dal 2018 al 2020 e che di recente ha pubblicato un libro con Guerini dal titolo: “Italia 2045, una transizione demografica e razionale”.

Presidente, leggendo il suo libro, sembra di capire che dopo 78 anni di crescita eccessiva  auspichi una crescita razionale, più modesta, che ci consenta di essere meno, ma meno stressati. Lo sottolinea più di una volta, non è l’augurio di una decrescita.  La produttività  dunque può aspettare, avanzi l’esigenza di una redistribuzione del reddito più facile con una popolazione più scarsa? 

Si tratta di un invito a superare il binomio collettivismo-capitalismo per imboccare una sorta di terza via, quella del capitalismo sociale e solidale, a questo punto indispensabile per garantire la sopravvivenza di un Pianeta evidentemente messo in sofferenza dai consumi sfrenati di questi ultimi anni. Ora, è bene precisare da subito che, in una scala da 1 a 10, ancora non sappiamo  – perché ci manca la conoscenza – quanto il cambiamento climatico dipenda da fattori e cicli naturali e quanto dall’uomo: quello che è certo, come sostiene la maggior parte degli scienziati e dicono anche le Nazioni Unite, è che una parte consistente del problema dipenda comunque da noi, dall’abnorme crescita demografica e dalla distruzione di ecosistemi e biodiversità, necessaria a sostenere eccessivi e inutili consumi di massa. Nel 2022 l’umanità ha consumato il 74% in più delle risorse che il Pianeta è in grado di rigenerare annualmente: ciò significa che ogni anno andiamo a debito e consumiamo 1,7 % con l’Overshoot Day – pandemia a parte – che cade sempre prima in calendario. Tutte ragioni per le quali gli scienziati parlano di un nuovo periodo geologico, l’Antropocene, proprio a sottolineare l’impronta umana nel cambiamento climatico.

E quindi?

Con tali premesse, siamo sicuri che rallentare non possa essere un bene per tutti? Per le donne, delle quali sostenere in primis emancipazione e parità -dopodiché ogni misura a favore della natalità è benvenuta – ma anche per l’economia, oggi viziata da un capitalismo deviato e mercatista che basa la sua esistenza sull’aumento della popolazione per aumentare i consumi? Per tutte queste ragioni, a differenza di un’opinione forse più diffusa, non mi ritengo così preoccupato dalla potenziale riduzione del PIL complessivo indotta dal calo della natalità e della popolazione – fattore, quest’ultimo, comunque temporaneo. Siamo bombardati da unapubblicità asfissiante che ci ha trasformati in macchine al servizio dei consumi. Non si tratta di redistribuire il reddito, ma di capire che questo modello non è più sostenibile e che, dall’attuale fase storica, dai più vissuta solo con preoccupazione, si possono trarre anche delle positività, a patto di essere pronti a fare nuove scelte.

Come tradurre in concreto produzione più razionale nel vocabolario degli imprenditori? Come produrre senza “sforare” e a partire da quando?

Quello che intendo dire è che il rallentamento inevitabilmente dovuto alla demografia può diventare l’occasione per un ripensamento generale della nostra società, in una direzione più etica e soprattutto distante dal capitalismo deviato di questi ultimi anni: meno frenesia a beneficio di maggiore attenzione al valore del tempo e della crescita personale, ma anche in favore di scelte d’acquisto e consumo più orientate alla qualità che alla quantità. Non si tratta certo di demonizzare il profitto o la produttività, anzi! Semmai, di passare a un modello che premi quanti lo fanno nel rispetto di ambiente e sostenibilità sociale.

Quando legge di stime di crescita inferiori alle previsioni per il nostro Paese o quando legge di inverno demografico, nessun magone? E’ sulla scia di certi ambientalisti che dicono “se siamo pochi, inquiniamo meno”?

Mi vorrei concentrare soprattutto sul tema dell’inverno demografico. Come evidenzio nel libro, è successo, e continua in modo quasi esponenziale, che siamo diventati improvvisamente longevi: abbiamo 20-30 anni in più da vivere, fatto mai capitato prima nella storia del genere umano. E noi italiani siamo capofila in questi anni supplementari, ma stiamo concentrando la nostra attenzione sugli allarmismi piuttosto che sul capire come utilizzare questi anni supplementari al meglio, per non esserne travolti, e magari farne una vera e propria risorsa. La longevità è una conquista! Certo, l’Italia è ancora impreparata a gestire il trend, come dimostrano l’assenza di adeguati programmi di prevenzione o presa in carico, la difficoltà di dare regole certe al sistema pensionistico e, ancora, la mancata riorganizzazione di modelli produttivi e di lavoro. Eppure, parlare dell’invecchiamento solo come problematico centro di costo è un errore: siamo infatti dinanzi a un’occasione, anche per l’economia. Il che non toglie che ogni iniziativa a favore della natalità sia ben accetta, purché si comprenda che ormai la demografia dei prossimi anni è già scritta. Anche se improvvisamente si ricominciasse a fare figli ci vorrebbe tempo per vederne gli effetti. E così è come quando piove non si può che aprire l’ombrello, allo stesso modo non resta che ripararsi e progettare azioni per gestire una transizione demografica ormai in atto.

Debito stratosferico, un numero di pensioni elevatissimo da pagare e politiche che incentivano la popolazione “grigia”. La soluzione qual è: una maggiore mobilità tra lavoratori e posti di lavoro quindi il coinvolgimento di gente che non lavora?  Aumento delle tasse? Insomma, come se ne esce?

Anche qui, vale la pena dare innanzitutto qualche numero. In solo 11 anni, dal 2008 alla fine del 2019 – pre COVID quindi – l’Italia è riuscita ad accumulare ben 777 miliardi di nuovo debito pubblico, con un incremento – sempre sul 2008- pari al 47%: alla faccia della criticata austerità imposta dalla cattiva Europa! L’ ultima rilevazione di Banca d’Italia calcola il debito a giugno 2023 in 2.843 miliardi: nuovo record storico con un incremento rispetto a fine 2022 di altri 81 miliardi. È evidente che occorrerà una crescita robusta dell’economia per sostenere cifre simili, ma al momento gli orizzonti non sono sereni anche alla luce attuali esasperanti politiche assistenziali fatte di promesse – spesso ai fini elettorali – basate su un ISEE che è un vero motore per il sommerso. E, nel frattempo, aumenta quindi vertiginosamente il costo per pagare gli interessi sul debito pubblico: dal 2009 al 2022 sono stati pagati interessi sul debito per circa 975 miliardi, nel 2023, spenderemo 21 miliardi in più rispetto al 2019, sempre che la BCE non prosegua nell’aumento dei tassi base. Questi numeri dovrebbero essere un promemoria per la nostra politica che, pur di conquistare il consenso a tutti i costi, prosegue lungo la strada dei sussidi, degli anticipi pensionistici, delle erogazioni a piè di lista senza controlli.

E allora?

Giusto aiutare chi ha davvero bisogno, ma non si può agire come se non esistesse il nostro mostruoso debito pubblico, unproblema enorme che potrebbe pregiudicare un minimo di benessere e libertà economiche a chi verrà dopo di noi. Maalle giovani generazioni si pensa più a parole che con i fatti concreti.

Agli imprenditori che ci stanno leggendo consiglierebbe di buttarsi sulla Silver Economy? 

Le stime del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali quantificano l’impatto sul PIL generato da beni e servizi rivolti agli over 50 – la cosiddetta Silver Economy, secondo la definizione della Commissione europea – in 583 miliardi di euro, poco meno di un terzo del PIL 2021. Siamo a 350, cifra comunque significativa, limitandosi ai soli ultra65enni. Del resto, quella di riferimento è una platea sempre più numerosa e detentrice di una fetta consistente di ricchezza : una patrimonializzazione – mobiliare e immobiliare – importante cui si associano flussi di reddito certi e poco sensibili ai cicli economici, tanto che lo spendibile netto annuo dei Silver italiani ammonta a circa 288,7 miliardi di euro di potenziali consumi, orientati soprattutto verso specifici settori. Come sanità, alimentazione, casa o tecnologia. Perché allora non cogliere l’opportunità? Del resto, che lo si voglia oppure no, stiamo percorrendo la strada della transizione demografica. E ora spetta appunto tanto al settore pubblico quanto a quello affrontare – anche in sinergia – le possibili criticità, superando preconcetti e stereotipi per trarne persino dei benefici.

Ma c’è chi punta anche sulla Blue Economy o la Space Economy, terreni piuttosto vergini.

Certo, la Silver Economy è forse tra le più evidente ma non l’unica opportunità di sviluppo e investimento che si può cogliere in questo momento.

A pagina 156 scrive: “Nessuno che si chieda quanti lavoratori ci serviranno se la popolazione italiana decrescerà di oltre 4 milioni e se i consumi di una popolazione che invecchia muteranno”. Ma adesso, visto che saremo sempre meno, iniziamo a tifare per una riduzione del Pil?

Metterla nei termini di fare il tifo per una riduzione del PIL mi sembra onestamente una lettura impropria, e anche eccessivamente semplicistica, del volume.Che, al contrario, vuole tra le altre cose mettere in evidenza alcune ipocrisie della nostra società e dei suoi principali influencer, come media, politica, Chiesa e sindacati. Si strilla e si lanciano allarmi ma pochi, per non dire nessuno, offrono soluzioni concrete ai problemi che affliggono il Paese. Nel 2045 noi italiani saremo circa 55 milioni: 4 milioni di abitanti in meno, di cui 2 milioni in età da lavoro. Le domande e le paure ricorrenti sono: ma se saremo in meno chi lavorerà? Chi ci pagherà la pensione e la sanità? Da più parti si lancia l’allarme: nascono troppo pochi bambini e le «culle sono vuote»; dobbiamo aumentare i flussi migratori per colmare il gap? Bene, a mio avviso, non sono appunto queste le domande giuste da farsi. Tanto per cominciare, come ho già avuto modo di evidenziare, ci preoccupiamo tanto per il calo della natalità ma non facciamo nulla per affrontare la maggiore fase di invecchiamento della popolazione che il nostro Paese abbia mai sperimentato. Siamo tra i primi al mondo per aspettativa di vita, ma non altrettanto per aspettativa di vita in buona salute. Il che è indice di scarsi o inesistenti programmi di screening e prevenzione, sia da parte dell’esausto Servizio Sanitario Nazionale sia dei fondi di assistenza sanitaria integrativi, per i quali mancano pure una legge quadro e un’adeguata vigilanza, nonostante associno ormai quasi 14 milioni di italiani. E, senza prevenzione, la spesa sanitaria per le cronicità è destinata a crescere. Oltre ai problemi sanitari legati all’invecchiamento della popolazione, c’è poi il tema delle pensioni che anche lei ha più volte richiamato: nei prossimi anni si pensioneranno le consistenti coorti del Baby Boom: nei prossimi 22/25 anni, all’incirca 8 milioni di lavoratori, pari a circa 364mila persone ogni anno. E, mentre la nostra politica non ne tiene conto promettendo “scappatoie” ai meccanismi pensionistici che spesso rischiano di minacciare la stabilità del sistema  – l’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare, pur nella consapevolezza di dover garantire maggiore flessibilità alla Monti-Fornero – i catastrofisti delle culle vuote e dell’inverno demografico lanciano allarmi perché mancheranno sempre più lavoratori. Un problema che in verità abbiamo già oggi, ma non perché manchino davvero braccia.

E cosa?

L’Italia ha 36,5 milioni di persone in età da lavoro ma gli occupati sono da poco arrivati a 23,5 milioni, che per noi costituisce un record assoluto! Nel confronto con i 27+1 Paesi europei, restiamo all’ultimo posto battuti anche da Grecia, Malta, Bulgaria ecc.  A fine 2022 i pensionati erano 16.090.000, in aumento di circa 90mila unità rispetto al 2018, l’anno con meno pensionati di sempre grazie alle riforme precedenti, ma in crescita a causa di provvedimenti tipo Quota 100 e APE sociale. Il rapporto fondamentale per la tenuta dei conti previdenziali, attivi/pensionati è al momento di 1,46 ma, in vista della più grande fase di invecchiamento della popolazione italiana, andrebbe quantomeno portato a 1,5/1,6. Lo scorso anno, per via delle forme assistenziali a cui non si è sottratto alcun governo – a prescindere dal colore – le prestazioni – comprese le circa 8,7 milioni di assistenziali – erano quasi 23 milioni, il che significa 1,42 pensioni per ogni pensionato. E cosa facciamo dinanzi a questi dati allarmanti e che peraltro non sembrano rispecchiare le reali condizioni socio-economiche di un Paese del G7?  Anziché prevedere agevolazioni per le imprese e aumentare l’occupazione, quali il superammortamento dei costi del personale (120%), l’abbattimento dell’IRES e IRAP, l’introduzione dei premi di risultato esenti da imposte e contributi come fece il Governo Draghi, per ridurre il cuneo fiscale ci prendiamo carico in carico 6/7 punti di contribuzione previdenziale. Costo, circa 10 miliardi escluse le rivalutazioni: 5 anni così e il bilancio dell’INPS sarà compromesso!

Proviamo a concludere, la ricetta qual è?

Forse ridurre l’enorme spesa assistenziale (165 miliardi netti l’anno) e progettare il futuro invecchiamento in modo serio è l’unica soluzione! E qui si torna al punto di partenza: rallentare. L’invecchiamento della popolazione è un fenomeno che ci accompagnerà almeno fino al 2045. Statistiche alla mano, a quella data, noi italiani saremo circa 55 milioni: 4 milioni di abitanti in meno, di cui 2 in età da lavoro. È allora tempo di ripararsi mettendo in campo tutte le azioni necessarie per trarre del bene da questo periodo, ripensando la società, la produzione, la distribuzione e i consumi. La domanda giusta da porsi è: sapremo affrontare la transizione razionale? Nella transizione “razionale” che invoco, forse saremo in meno nel 2045 ma certamente saremo meno assediati da pubblicità con un PIL pro capite maggiore, con più occupati e redditi più alti. Sicuramente più felici e meno stressati.

Cinzia Ficco


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