Ce ne para Simone Paolo Guzzardi, che sull’argomento ha scritto un libro (FrancoAngeli)
Non solo prodotti e servizi. E’ il momento dell’ ambassador.
Le organizzazioni hanno sempre più la necessità di comunicare se stesse e non solo a beneficio dei consumatori, ma anche per tutti i collaboratori, effettivi o potenziali, per distinguersi come datori di lavoro attrattivi e unici.
Le capacità di attrarre e trattenere sono diventate fattori di competitività centrali così come le strategie di Employer branding e quelle di Employer advocacy, che consentono di creare attenzione e costruire reputazione attraverso la comunicazione degli “ambassador”.
Ma in concreto di cosa parliamo?
Ce lo dice Simone Paolo Guzzardi, co-founder e Ceo di L45, agenzia di Reputation & Employer branding, di cui è pioniere, giornalista, che di recente ha pubblicato con FrancoAngeli un libro dal titolo: Employer Community – Acquisire e trattenere i migliori talenti. Con la prefazione di Federico Frattini (Polimi Graduate School of Management)
Cosa intendere per Employer branding e in cosa questa strategia di comunicazione si distingue da quelle tradizionali?
L’Employer branding non si concentra solo su ciò che l’azienda offre al mercato, ma su ciò che rappresenta come datore di lavoro. Se la comunicazione passata era focalizzata sul prodotto o servizio, oggi l’attenzione si sposta sulle persone, sulla cultura aziendale e sull’esperienza lavorativa. L’Employer branding mira a costruire una narrazione autentica che attrae, coinvolge e trattiene i talenti. Si basa su una promessa: lavorare qui ha un valore specifico, tangibile, per chi lo fa. E a differenza della comunicazione aziendale tradizionale, il pubblico interno – i dipendenti – è altrettanto importante quanto quello esterno – i candidati e il mercato del lavoro.
Quanto può essere sincera una comunicazione sull’azienda da parte di chi in quell’azienda lavora? E come verificarla?
La comunicazione che proviene dai dipendenti può essere sincera solo se l’azienda coltiva una cultura aziendale trasparente e autentica. I dipendenti devono essere convinti dei valori e della missione dell’azienda per poter comunicare in modo credibile. Per verificarla, è essenziale che ci sia un monitoraggio continuo della coerenza tra ciò che viene comunicato e l’esperienza reale di lavoro. Strumenti come le survey interne, i feedback anonimi o il monitoraggio delle piattaforme di recensione come Glassdoor possono aiutare a misurare la percezione interna. https://www.glassdoor.it/index.htm.
Come scegliere i “portavoce” di una azienda?
Le persone comuni da scegliere come ambassador dovrebbero essere quelle che incarnano i valori dell’azienda e che siano percepite come genuine dai colleghi. Non è necessario che siano figure di alto profilo, anzi, spesso i profili più terreni e sinceri riescono a creare una maggiore connessione emotiva. Noi ci teniamo sempre a fare in modo che la loro adesione sia spontanea e favorita da campagne di comunicazione interna ben reali.
Qual è il rischio più grande dell’Employer branding?
Il rischio più grande è creare una discrepanza tra la promessa che l’azienda fa all’esterno e la realtà vissuta dai dipendenti all’interno. Se un’azienda promuove un’immagine di inclusività o benessere, ma i dipendenti non la percepiscono allo stesso modo, si crea una frattura di fiducia. Questo non solo danneggia la reputazione aziendale, ma può portare anche a un aumento del turnover.
A quali condizioni funziona?
L’employer branding funziona quando è autentico, allineato con i valori aziendali e sostenuto dalla leadership. Deve essere co-creato dai dipendenti e costantemente monitorato per assicurarsi che la percezione interna ed esterna siano coerenti. In più, deve essere integrato in una strategia di HR marketing che include la misurazione del ROI e l’adattamento continuo alle necessità del mercato e dei lavoratori. Alla base dei programmi di ambassador c’è la volontarietà. Chiunque lavori in azienda ha il superpotere dell ‘ambassador. Sul profilo Linkedin personale, ciascun collaboratore, accanto al proprio nome, ha scritto il nome dell’azienda presso cui è impiegato. Ne consegue che tutto ciò che scrive sul noto social network professionale – e il modo in cui lo farà- avrà riflessi in senso positivo o negativo sulla sua azienda . Contenuti appropriati, accurati e intelligenti, espressi in buono stile e con gentilezza, metteranno in buona luce oltre a chi li ha scritti, anche la sua organizzazione di appartenenza.
Come omogenizzare una comunicazione interna con una esterna e arrivare all’obiettivo finale, l’Employer community?
La chiave è la coerenza. La comunicazione interna ed esterna devono parlare la stessa lingua, condividere gli stessi valori e messaggi. Questo si può ottenere tramite una strategia di comunicazione integrata, dove i messaggi chiave vengono co-sviluppati con dipendenti e leadership. Per quanto riguarda la scelta degli ambassador, è fondamentale puntare su persone che siano rispettate all’interno dell’azienda e che riflettano realmente i valori aziendali. Non devono essere necessariamente manager o figure apicali, ma devono essere autentici e avere un’esperienza positiva da condividere. Devono essere pronti a rappresentare l’azienda non solo a parole, ma con i fatti.
Come si elabora e sviluppa un piano di Employer branding e a chi affidarsi?
Un piano di Employer branding parte sempre da un’analisi approfondita. Bisogna raccogliere feedback dai dipendenti, capire cosa rende unica l’azienda come luogo di lavoro e definire una Employee Value Proposition (EVP) chiara. Si sviluppa quindi una narrativa coerente che può essere comunicata all’esterno tramite vari canali, tra cui campagne di social media, siti di carriera e testimonial interni. Per capire se la strategia è quella giusta, è importante misurare continuamente il livello di engagement, la capacità di attrarre candidati di qualità e il tasso di retention dei talenti. I primi risultati tangibili possono vedersi entro 6-12 mesi, a seconda della portata del progetto.
Che costi ha?
I costi variano molto in base alla dimensione dell’azienda e alla complessità della strategia. Si parte da costi relativamente contenuti per la creazione di contenuti e l’ottimizzazione dei canali di comunicazione interni, fino a investimenti più importanti per campagne di advertising, eventi di Employer branding e piattaforme digitali. Nella nostra impostazione, in ogni caso, partiamo da un’analisi dei principali KPI (anche gratuita attraverso degli assessment light) per definire – o ridefinire – la strategia, e poi passare alla fase operativa. In generale, si tratta di un investimento strategico che tende a ripagare nel medio-lungo termine, sia in termini di riduzione del turnover che di miglioramento dell’attrazione di talenti, tutto misurabile attraverso il ROI delle attività.
La cattiva reputazione è più frutto di errori nella comunicazione interna o esterna?
In genere, la cattiva reputazione è frutto di una disconnessione tra comunicazione interna ed esterna. Se l’azienda promuove un’immagine all’esterno che non corrisponde alla realtà vissuta dai dipendenti, questo crea malcontento e può danneggiare seriamente la reputazione aziendale. La comunicazione interna deve essere solida, trasparente e riflettere ciò che si vuole comunicare all’esterno.
Quanto è diffuso in Italia l’Employer branding e di conseguenza l’Employer marketing?
In Italia, l’Employer branding è ancora in fase di crescita, ma sta guadagnando sempre più attenzione. Le aziende stanno iniziando a comprendere che non basta più promuovere il prodotto, ma è necessario costruire un’immagine forte come datore di lavoro. Tuttavia, siamo ancora un po’ indietro rispetto a mercati come quello anglosassone, dove queste pratiche sono già ben consolidate.
Quanto le dimissioni volontarie di tanti giovani sono il risultato di una pessima comunicazione?
Le dimissioni volontarie di tanti giovani sono spesso il sintomo di una mancanza di comunicazione efficace da parte delle aziende. Quando i giovani non sentono di avere una connessione con i valori aziendali o non vedono prospettive di crescita, tendono a cercare altre opportunità. Molto spesso, una comunicazione interna poco trasparente o la mancanza di un purpose chiaro possono spingerli a lasciare.
Cinzia Ficco