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Ottobre 21, 2024
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Unicità? “Aiuta più l’intelligenza artificiale che una politica di inclusione ipocrita”

Parla Maria Cristina Bombelli, autrice di un libro, pubblicato da FrancoAngeli


Come l’unicità incontra il mondo del lavoro? Quali aspetti del lavoro mettono in luce la nostra unicità? Perché le organizzazioni devono conoscere che cosa i collaboratori chiedono al lavoro? Come si stanno evolvendo le strategie di gestione delle persone in relazione alla loro unicità?

A queste domande prova a dare una risposta il nuovo libro (FrancoAngeli), intitolato “Unicità” di Maria Cristina Bombelli, (in foto), fondatrice di Wise Growth, società di consulenza orientata allo sviluppo organizzativo e individuale, con particolare riferimento all’inclusione della diversità.

Nel suo lavoro di circa 140 pagine l’autrice mette insieme le esperienze vissute nella faculty di Bocconi School of Management – dove ha fondato e condotto un centro di ricerca sul Diversity Management – ma anche gli anni trascorsi come docente di Comportamento Organizzativo presso l’Università di Milano Bicocca e visiting scholar presso l’Università di La Verne, Oc, California.

Il libro è un invito a imprenditori e responsabili  delle risorse umane a proteggere l’irriproducibilità di ciascun lavoratore, stando alla larga da classificazioni spesso stereotipate e cercando un dialogo sincero che porti l’organizzazione a conoscere la storia unica, originale di ciascun dipendente.

Intanto, Maria Cristina, cosa intendere per unicità?

L’unicità è il risultato di un percorso individuale di costruzione della propria identità. Un itinerario che non si conclude mai, perché è sempre possibile cambiare per scelta o per i casi che la vita propone. Il tema è diventato centrale perché le possibilità e le opportunità sono aumentate molto ampliando le richieste dei singoli, diversificando i desideri, le richieste e le ambizioni relativamente al lavoro.

Un libro sull’unicità perché pensa che le pmi in Italia siano poco sensibili a tale valore e tendano a prediligere politiche indifferenzianti, meno faticose e costose? Sarà di sicuro più complicato conciliare il purpose aziendale e quello puropose individule, giusto?

La riflessione sull’unicità che mi è stata proposta da Silvia Zanella, curatrice della collana Voci del lavoro nuovo è stata un’occasione preziosa per collegare molti spunti del mio percorso personale. Ho trovato il tema attuale proprio per aver osservato nel tempo come sono stati gestiti i progetti di “Diversity & Inclusion” in molte aziende. La prima osservazione è che troppo spesso si sono utilizzate categorie – le  donne, le generazioni, le persone con disabilità, ad esempio – Dunque, un approccio forse necessario  ma che ha oscurato il tema del singolo, dell’unicità appunto, all’interno dei contesti organizzativi. Per superare questa frammentazione, con i colleghi di Wise Growth, avevo individuato nella “cultura del rispetto” quel minimo comun denominatore che poteva costruire una cultura aziendale realmente inclusiva. Inoltre nella tradizionale visione della gestione delle persone è più comodo ed economico relazionarsi a gruppi invece che ad individui. Mi rendo conto che tenere conto dei singoli è faticoso e dispendioso dal punto di vista del tempo, ma credo anche che sia un passaggio inevitabile. Certo, l’unicità individuale comporta anche il riconoscimento soggettivo di un purpose, il proprio obiettivo più ampio, quasi la propria ragione di vita. La situazione ideale si ha quando questo anelito coincide con quello aziendale, nei casi ovviamente in cui le aziende esplicitino un purpose coerente con la propria cultura e non un elemento di facciata comunicativa.

Dove deve fermarsi il rispetto dell’unicità da parte di una organizzazione perché non si crei caos e, in genere, come tenere insieme il desiderio di differenziarsi di ciascuno e la necessità di appartenere ad una realtà più grande per essere riconosciuti?

Credo non esista ancora la preoccupazione di dove fermarsi relativamente al tema dell’unicità. Siamo agli albori di una riflessione e quindi non possiamo delineare situazioni limite. Iniziamo col dire che legittimamente ogni organizzazione descrive quale è il contributo necessario per perseguire le proprie strategie organizzative e le competenze di cui necessita per raggiugere i risultati e, di conseguenza, va alla ricerca di persone che possano occupare questo spazio. Il rischio è che in questo modo non si ascoltino le istanze che possono provenire dai singoli, competenze aggiuntive, ad esempio, idee innovative, passaggi di carriera non tradizionali. Le organizzazioni più refrattarie all’ascolto sono quelle impostate sulla tradizione, che non hanno ancora colto il potenziale innovativo di strategie basate sul coinvolgimento e la compartecipazione alle decisioni aziendali. Sono, in genere, quelle in cui prevalgono, ancora, la burocrazia, il pezzo di carta, le scalette rigide rispetto alle situazioni concrete.

Si può dire che ad azzerare l’unicità di una persona siano il politicamente corretto e strategie di inclusione, espressamente volute per combattere la diversità, che contengono una certa dose di ipocrisia?

Le policy di inclusione della diversità hanno certamente un ruolo nell’accettare e rendere fertile l’incontro tra le organizzazioni e le singolarità. Sono stati fatti degli errori, spesso in buona fede, ma non dobbiamo dimenticare che le aziende sono oggi i laboratori di convivenza più costruttivi. Già affermare di volere sviluppare una inclusione delle differenze è un passo avanti rispetto al disinteresse. Certo, ci sono situazioni in cui le affermazioni sono roboanti e i risultati miseri, ma vi sono anche realtà seriamente interessate a sperimentare dialogo e co-costruzione di uno spirito di collaborazione. Ancora, ci sono state ed esistono esagerazioni, come quelle descritte in alcune realtà americane, dove il politicamente corretto ha preso il sopravvento sulla concretezza delle cose. Un elemento formale a cui magari non si accompagna un reale cambiamento culturale.

Un’organizzazione che rispetti l’unicità di ciascuno, lei scrive nel suo libro, è quella che si apre all’ascolto, che è trasparente e coinvolgente. Ma come creare momenti di ascolto e incontro sinceri in una PMI?

E’ proprio l’ascolto il punto centrale. In primo luogo tra capo e collaboratore per individuare i bisogni soggettivi, riconoscere le reciproche aspettative e le possibili evoluzioni.  E poi in molti progetti l’azienda struttura dei questionari o dei focus group periodici per verificare la soddisfazione delle attese. Sono modalità normali per quanto riguarda i clienti, che possono essere applicate in modo analogo per i clienti interni. Oggi soprattutto i giovani spesso denunciano una sordità organizzativa rispetto a molti aspetti per loro irrinunciabili, ad esempio, lo smart working.  Fondamentale è superare l’ idea per cui è più importante la quantità delle ore lavorate che il risultato finale. Oggi l’equilibrio vita – lavoro per uomini e donne è un elemento centrale per una buona qualità della vita. Un altro elemento da considerare è quello del già citato purpose. I giovani, come in tutte le generazioni, sono portatori di istanze sociali e di partecipazione a cui spesso non viene data risposta.

Quanto si sono attrezzate le organizzazioni rispetto ad un lavoro profondamente  cambiato,  soprattutto con la pandemia?

La pandemia ha avuto il merito, se così si può dire, di aver scardinato in pochi giorni la tradizionale organizzazione del lavoro. Tutti hanno familiarizzato con l’on line, si sono adeguati a riunioni stringate, delimitate nel tempo e così via. Oggi qualcuno vorrebbe tornare al passato, ma non è più possibile. Anche nel libro si affronta il tema dell’equilibrio tra lavoro in sede e lavoro a casa per dire che una forma non può più fare a meno dell’altra. Stare insieme in un ufficio aiuta a costruire un’identità organizzativa, a fare circolare le informazioni e a costruire senso di appartenenza. Ma molti giovani si chiedono il perché di un viaggio spesso faticoso in un luogo in cui si lavora esattamente come a casa, attaccati agli stessi computer, senza possibilità di interazione tra le persone. Anche questa è una sfida per il futuro, mettere insieme in modo ibrido due modalità che hanno comunque dei vantaggi.

Mi fa un esempio di azienda che rispetta l’unicità?

Il tema dell’unicità è affrontato all’interno dei percorsi di Diversity, Equity and Inclusion con differenti sfumature. Nel testo sono citate due aziende, Deutsche Bank per un progetto sulle generazioni a pag 87 e Barilla a pag 31 per progetti di ascolto.

Quanto può aiutare l’Intelligenza artificiale a valorizzare l’unicità?

Alle pagine 111 e 112 riporto la posizione di Alessandra Lazzazara, professoressa associata di Organizzazione Aziendale e gestione delle risorse umane all’Università degli Studi di Milano. L’Ai può portare un beneficio significativo soprattutto attraverso la personalizzazione delle esperienze di ciascun lavoratore. Per esempio, l’Ai permetterà di utilizzare i dati strutturati e  non strutturati già in possesso delle aziende per comprendere le preferenze, competenze, background e aspettative delle persone in maniera predefinita, consentendo di personalizzare le risposte e le opportunità offerte dall’azienda, rispettando la specificità di ognuno. Questo può includere la programmazione flessibile, percorri di sviluppo personalizzati e l’assegnazione di compiti che tengano conto delle abilità e delle preferenze individuali. Così si possono metter in atto azioni correttive. Utilizzando gli algoritmi, l’Ai può identificare e mitigare i bias impliciti nei processi decisionali umani, contribuendo a garantire una maggiore equità e inclusione. Inoltre, l’Ai può migliorare l’accessibilità per le persone con disabilità, sia fisiche che cognitive. Per esempio, attraverso la tecnologia di riconoscimento vocale, l’Ai può agevolare l’interazione dei dipendenti con disabilità visive con i sistemi informatici sul luogo del lavoro. Per quanto riguarda la disabilità cognitiva, l’Ai può offrire supporto personalizzato per l’apprendimento e lo sviluppo dei dipendenti neurodivergenti.

Cinzia Ficco

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