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  • La ripartenza delle imprese italiane arriva dal Terzo settore

    La ripartenza delle imprese italiane arriva dal Terzo settore

    Intervista con Fiorella Pallas, co-founder e Presidente di una Onlus al servizio delle pmi in difficoltà


    Aiutare e sostenere le piccole e medie imprese è l’obiettivo principale della Onlus 100000 ripartenze (https://www.100000ripartenze.it/), al fine di offrire supporto alle realtà economiche che non riescono a far fronte alle difficoltà finanziarie, assicurando una risposta concreta.

    Fiorella Pallas, co-founder e Presidente della Onlus, ha creato una rete di sostegno, una task force di volontari, coach, mentori e specialisti. Una vera e propria squadra di specialisti con la quale accompagnare gratuitamente imprenditori e professionisti a rientrare nel mondo del lavoro, con una nuova visione e maggiori strumenti. Il modello della Onlus produce una ricaduta positiva sia sulla ripresa economica sia sulla riduzione della spesa pubblica, dall’impatto sul sistema sanitario agli ammortizzatori sociali, restituendo figure di valore e nuovo impulso al mercato. Non solo. Ispirati ai successi della partner francese 60.000 Rebonds, gli ideatori hanno ottimizzato la metodologia, divenendo un hub di riferimento per la rinascita professionale e la promozione di una nuova cultura della ripartenza.

    Le due associazioni Italia e Francia, Mario Molinari (Sambuca Molinari): 100milaRipartenze, 60milaRebonds

    Le PMI italiane

    Rappresentano quella che potremmo definire la colonna portante dell’economia italiana. E questa realtà economica è divenuta più determinata dopo le ultime cessioni delle industrie italiane, protagoniste indiscusse della storia economica italiana del XX secolo. Restano soltanto le PMI a promuovere il made in Italy. Non solo. Aumentano in maniera significativa il famoso PIL, meglio conosciuto come prodotto interno lordo. Non dimentichiamo l’indubbia affermazione delle start-up, solitamente dedicate al settore dell’innovazione, che producono ricchezza e nuove occasioni di mercato.

    La co-founder e Presidente

    Fiorella Pallas, di origine greca, mezza siciliana e mezza francese, è nata ad Haiti. Fiorella Pallas ha avuto una lunga carriera di 18 anni presso una multinazionale in Italia e all’estero ricoprendo diversi ruoli manageriali e dirigenziali nel marketing, nelle vendite e negli acquisti con responsabilità europee. Nel 2000 diventa imprenditrice di una linea di gioielli olistici per il risveglio della bellezza interiore. Purtroppo l’impresa è arrivata quasi al fallimento. Una sconfitta inaspettata e dolorosa, che costringe Fiorella Pallas a ripercorrere i suoi errori, a rendersi conto della solitudine di chi si ritrova a cadere, a ricominciare da capo, ancora una volta. Ed è proprio per questo motivo che è iniziato il suo percorso: è diventata coach focalizzando l’attenzione sul talento umano. A quel punto il passo è stato breve. Dopo sette anni di lavoro e determinazione la sua azienda comincia a decollare anche all’estero, fino ad arrivare al 2019, l’anno perfetto, nel quale il magazine Forbes dedica diversi articoli e viene riconosciuta tra le 100 Top donne di successo. È stato in quel preciso momento che Fiorella Pallas capisce che poteva e doveva aiutare le persone che avevano vissuto la sua stessa esperienza: nasce in Veneto 100.000 Ripartenze Onlus, progetto dedicato a far ripartire il talento imprenditoriale Italiano a seguito di un’esperienza di fallimento. La squadra della Onlus è composta di volontari impegnati ad affiancare per 12/18 mesi, gratuitamente, gli imprenditori con dei percorsi di coaching, mentoring e attività di gruppo.

    Con Fiorella Pallas cerchiamo di conoscere le diverse dinamiche della ripartenza e del metodo adottato dalla sua Onlus, a beneficio dell’economia italiana.

    Come avviene il primo contatto con le imprese?

    «Il contatto avviene direttamente con gli imprenditori, dopo il lancio dell’Associazione nel 2019, si è creato un meccanismo di passaparola su quasi tutto il territorio che ha visto una risposta molto forte dalle PMI. Le piccole e medie imprese sono maggiormente penalizzate dagli effetti della crisi economica e spesso non hanno la forza e la struttura per reagire come quelle di grandi dimensioni, ma rappresentano il 41% del fatturato del paese e un terzo degli occupati. Oggi vogliamo accorciare le distanze con una maggiore presenza mediatica e stimolare un maggiore coinvolgimento con le associazioni di settore come Confapi, Confartigianato e Confindustria».

    Qual è la particolarità del vostro metodo?

    «Abbiamo creato una Safe Zone della ripartenza, una task force di volontari, coach, mentori e specialisti, che sostiene ed accompagna gratuitamente imprenditori e professionisti a rientrare nel mondo del lavoro con una nuova visione e maggiori strumenti. Per una ripresa sostenibile bisogna focalizzarsi sul sostegno alle persone, gli imprenditori, i veri motori dell’economia. Il nostro è un percorso interdisciplinare che ha parti sia individuali che di confronto collettivo e che dura fino a 18 mesi. La prima fase è Wellbeing, funzionale a facilitare la ripartenza e l’accesso ai percorsi successivi di coaching e mentoring individuali. Per rendere più solida e sicura la nuova attività, l’imprenditore viene coadiuvato da specialisti di diversi settori con consulenze mirate, accede ai Master Mind e ai Comitati di Sviluppo iniziando a creare una nuova Community, una rete di relazioni sempre più solida per le future attività. L’evoluzione tecnologica ha radicalmente trasformato le esigenze del mercato modificandone le richieste. Per sopravvivere è necessario sviluppare sempre nuove competenze e motivazioni. Abbiamo avviato una collaborazione con H-Farm, per potenziare l’integrazione dell’innovazione digitale nella riqualificazione del business. Un’opportunità eccezionale anche per i giovani di confrontarsi con case history reali ed entrare a far parte di un network di professionisti. Alla luce dei risultati di successo ottenuti, vogliamo estendere la collaborazione a diverse università».

    C’è una causa principale delle crisi nelle PMI?

    «È difficile individuare una causa principale, peraltro volendo indicare quella più diffusa, credo sia la Dimensione. La dimensione delle PMI italiane è elemento di forza e contemporaneamente di debolezza, che le espone a diverse cause di crisi che mettono a rischio sia la loro stabilità sia la crescita. Innanzitutto la dimensione le rende vulnerabili a contesti esogeni, quali l’accesso limitato al credito, aggravato da una burocrazia complessa e da una lentezza nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione. Le piccole dimensioni rendono inoltre complicata la competizione in contesti globali e l’investimento massiccio in innovazione tecnologica e digitalizzazione. Infine la difficoltà a ricorrere a competenze manageriali esterne e di personale qualificato, può limitare la capacità di adattamento ai cambiamenti del mercato, soprattutto se il passaggio generazionale stenta a decollare».

    Ripartire è un modo per azzerare e ricostruire. Come intervenite su una PMI?

    «Vogliamo creare una nuova Cultura della Ripartenza mettendo al centro la persona, l’imprenditore o il professionista. Il primo passo per la ripartenza si fonda sull’individuo, è indispensabile cicatrizzare le ferite emotive di un percorso lavorativo esaurito, capitalizzando esperienze e errori passati. Imprenditori e professionisti sono creatori di valore, fornirgli sostegno nel momento più difficile della vita e i mezzi per riprendersi significa creare il valore di domani. Il nostro modello produce una ricaduta positiva sia sulla ripresa economica che sulla riduzione della spesa pubblica, dall’impatto sul sistema sanitario agli ammortizzatori sociali, restituendo figure e brand di valore e nuovo impulso al mercato».

    Che problema sta vivendo l’impresa in questo momento storico?

    «In questo momento, l’impresa sta affrontando diverse sfide. La crisi economica globale ha ridotto la domanda, causando una diminuzione significativa delle entrate. Il costo crescente di alcune materie prime sta mettendo sotto pressione la liquidità aziendale, con ritardi nei pagamenti da parte dei clienti, ulteriormente aggravando la situazione finanziaria. Infine l’incertezza normativa, le continue modifiche fiscali ed un contesto geopolitico complesso, creano un ambiente operativo instabile».

    Digitale e tecnologia come influenzano il futuro delle PMI?

    «Il digitale e la tecnologia stanno rivoluzionando il futuro delle PMI, offrendo una grande opportunità ma anche nuove sfide. La trasformazione digitale favorisce l’innovazione e la personalizzazione dei prodotti e servizi, aumentando in modo formidabile la competitività. L’automazione dei processi produttivi e gestionali consente di aumentare l’efficienza e ridurre i costi operativi, le piattaforme di e-commerce permettono alle PMI di raggiungere i mercati globali, incrementando la base dei clienti e di conseguenza le vendite. La digitalizzazione dei dati migliora la gestione delle informazioni a supporto delle decisioni strategiche. Tuttavia, l’adozione di nuove tecnologie richiede importanti investimenti e competenze specifiche, che le PMI hanno difficoltà a reperire e possedere. Il bug che ha paralizzato il mondo nei giorni scorsi, non a caso, ha avuto un impatto decisamente più violento sulle PMI. La cybersecurity, inoltre, diventa un aspetto potenzialmente critico, con la necessità di tutelare dati sensibili da minacce informatiche».

    Il ruolo delle PMI italiane

    Le piccole e medie imprese italiane svolgono un ruolo fondamentale nell’economia nazionale perché rappresentano a pieno titolo la spina dorsale del sistema produttivo italiano, costituendo il 95,13% delle imprese attive in Italia. È quanto emerge dai dati elaborati dall’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI. «Sono circa 211mila aziende – si legge nel Documento – corrispondente al 4,78% del tessuto imprenditoriale italiano. Generano il 41% dell’intero fatturato, il 33% dell’occupazione del settore privato e il 38% del valore aggiunto del Paese. Producono un valore aggiunto superiore ai media europei. Sono al centro delle catene globali del valore e dei distretti industriali, contribuendo alla diffusione e all’affermazione del Made in Italy nel mondo. Rappresentano un connettore sociale e un attore chiave nei processi di transizione verso un mondo più sostenibile e digitale. Il 60% degli addetti all’industria in Italia è impiegato in aziende con meno di 250 dipendenti, a dimostrazione del ruolo centrale delle PMI. Sono un fiore all’occhiello dell’economia nazionale, con quasi 150mila aziende che hanno recuperato elevati livelli di redditività, movimentando un giro d’affari di 886 miliardi di euro e un valore aggiunto di 212 miliardi, pari al 12,6% del PIL. In sintesi, le PMI italiane rappresentano un asset strategico per l’economia del Paese, contribuendo in modo determinante a fatturato, occupazione, valore aggiunto e competitività a livello globale».

    Francesco Fravolini

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  • “Per il post Covid in azienda servono un welfare manager e piani individuali di benessere. Intanto arriva Win”

    “Per il post Covid in azienda servono un welfare manager e piani individuali di benessere. Intanto arriva Win”

    Martina Tombari, fondatrice di Walà, che ha creato uno strumento per comprendere i bisogni reali del personale


    Walà S.r.l. Società Benefit presenta WIN – What I Need – lo strumento che aiuta a comprendere quali sono i bisogni reali del personale in un’azienda o in una organizzazione per redigere un piano di welfare efficace.

    WIN è stato ideato e realizzato in collaborazione con Percorsi di secondo welfare  e si distingue dalle classiche indagini, perché non punta a costruire piani di welfare calati dall’alto, che da svariate ricerche risultano essere troppo spesso inefficaci se non addirittura controproducenti, ma azioni su misura per l’azienda e i suoi dipendenti. Inoltre si differenzia dalle classiche survey proposte dai provider.

    “Spesso, infatti, chi opera nel mercato del welfare – ci spiega Martina Tombari, fondatrice di Walà https://walawelfare.com/ – predispone uno strumento di rilevazione dei bisogni che tende a orientare chi risponde alle domande verso alcuni specifici prodotti o servizi. E spesso questi ultimi coincidono con il core-business dell’operatore o provider a cui si appalta il servizio. Inoltre, l’innovazione tech, che contraddistingue l’applicativo rispetto alle classiche survey, consiste nel metodo adattivo della somministrazione, che costruisce il percorso delle domande poste in maniera personalizzata in base alle risposte date in precedenza e quindi dei bisogni espressi. In questo modo si ha uno strumento semplice, ma che riesce ad inquadrare le reali necessità delle persone, attraverso una vera e propria profilazione di lavoratori e lavoratrici”.

    Come si diceva, WIN è stato progettato con Percorsi di secondo welfare, Laboratorio di ricerca spin-off dell’Università degli Studi di Milano, che ha creato il modello di domande sul quale si basa WIN, dando delle pesature alle varie risposte in modo da creare mappe in maniera performante all’interno delle aree di bisogno, rilevabili tra lavoratori e lavoratrici. Il tutto in coerenza con la normativa sul welfare aziendale: carichi di cura familiari, vulnerabilità economico-finanziaria, salute e benessere psicologico, necessità legate alla formazione, mobilità e tempo libero.

    Sul mercato WIN è stato validato grazie al coinvolgimento di esperti e professionisti. Responsabili HR, Welfare Manager e rappresentanti sindacali sono stati coinvolti in un Focus Group. La fase finale della sperimentazione è stata testare l’applicativo su oltre 500 dipendenti di cinque imprese iscritte all’Unione Industriale di Torino.

    Ma come funziona?

    “Ad ogni lavoratore – chiarisce Martina – e lavoratrice viene proposto un percorso di circa 20/30 domande, delle circa 100 previste. Il questionario propone dunque molteplici combinazioni di domande a partire dal profilo di ciascun dipendente, rileva i bisogni individuali e familiari dei dipendenti, non si limita ai bisogni che possono essere presi in carico dai servizi esistenti di welfare (aziendale e non). Tiene conto della dimensione oggettiva (ad esempio, numero di figli) e soggettiva (intensità percepita del carico di cura del bisogno). Infine, l’applicativo genera una dashboard relativa al questionario dalla quale è possibile monitorare le statistiche di fruizione della rilevazione, in itinere per le figure referenti selezionate, visualizzare i grafici con la distribuzione della popolazione e conoscere la percentuale di lavoratrici e lavoratori con un certo tipo di bisogno. WIN nasce da un’intuizione scaturita dal mio percorso professionale, dopo anni di lavoro in Fondazione Casa della Carità e poi in CGM e un master in mediazione dei conflitti. Mi sono chiesta se l’attitudine all’ascolto e l’importanza dell’aiuto per l’emersione del bisogno reale, tipica del sociale, potessero essere una modalità di approccio utile e applicabile anche all’interno delle aziende nel supporto ai propri lavoratori.  Il questionario è stato per questo strutturato in maniera tale da essere adattivo. Non tutti gli utilizzatori vedranno le stesse domande. Lo scopo è rendere l’esperienza semplice, fruibile e non disincentivante per chi lo utilizza, anche se nella realtà WIN è un applicativo altamente complesso dal punto di vista tecnico che offre uno strumento, cioè la dashboard, ampio e fortemente indagabile grazie all’analisi di tipo sociologico che ne sottende la costruzione”.

    Ogni lavoratore e lavoratrice vedrà dunque sottoporsi solo il numero di domande – prese da un basket di oltre 100 – necessarie alla profilazione delle proprie personali aree di bisogno, in maniera tale da non far ritrovare domande che non risultino coerenti con il rispondente e dunque non ingaggianti.

    “Oltre a ciò – continua Martina –  si è cercato di eliminare il distrattivo: non si chiede mai direttamente di cosa una persona abbia bisogno, ma si indaga tramite un serie di domande oggettive e soggettive per far emergere quali siano i bisogni reali dei dipendenti.  Il fenomeno distrattivo è uno dei più insidiosi bias delle classiche survey”.

    Un esempio: se chiedo ad un genitore sovraccaricato dal suo ruolo di cura quale sia il suo bisogno tra una serie di opzioni possibili, è molto probabile che quest’ultimo scelga una spa per un conforto immediato, piuttosto che un’attività più strutturata utile a dare reale sostegno al bisogno, come una babysitter o un supporto psicologico per il figlio adolescente.

     “Altro elemento – ancora le sue parole – che distingue il nostro progetto è il linguaggio. Nell’indagare i bisogni dei lavoratori e delle lavoratrici, risulta quasi naturale toccare tematiche che risultano critiche e molto personali per il soggetto. Per questo si è cercato di creare uno strumento il più neutro possibile in termini di utilizzo di vocaboli e definizioni, che mettesse il rispondente in una situazione di agio e evitasse lo stigma del giudizio”.

    Cosa è cambiato rispetto a cinque, sei anni fa in termini di benessere aziendale?

    “La linea di demarcazione tra il welfare aziendale di oggi e quello di 5 o 6 anni fa – replica – non è definita in modo rigido, ma è evidente che ad oggi, in particolare dopo la pandemia da COVID-19, il welfare aziendale abbia una tendenza a spingersi oltre la mera assegnazione di risorse finanziarie sotto forma di fringe benefit o flexible benefit, al contrario si sta sempre più spostando verso la progettazione di programmi personalizzati che tengano conto delle esigenze dei dipendenti e degli obiettivi strategici dell’azienda. Il welfare aziendale svolge un ruolo cruciale non solo come strumento per ottenere agevolazioni fiscali attraverso l’allocazione di risorse finanziarie, ma anche come leva strategica per promuovere politiche di benessere organizzativo. Queste politiche sono strettamente legate ai principi di diversità, equità e inclusione (DE&I), alla considerazione dei criteri ESG (Ambiente, Sociale e Governance) e al supporto per favorire un equilibrato rapporto tra lavoro e vita privata, tra molti altri obiettivi aziendali. In definitiva, dopo il Covid si è presa una direzione da cui è difficile tornare indietro: oggi il welfare aziendale tende a muoversi all’interno di una concezione in cui l’azienda ha un ruolo attivo, e prende il suo posto fra i soggetti definibili come attori del cosiddetto secondo welfare, cioè con l’insieme di interventi che si affiancano a quelli garantiti dal settore pubblico – il primo welfare – per offrire risposte innovative a rischi e bisogni sociali che interessano le persone e le comunità. Questa idea è alla base del concetto di welfare mix che porta a sviluppare progetti in grado di connettere sostenibilità delle politiche e tutela dei nuovi rischi sociali, approfondendo le nuove sinergie tra attori pubblici e privati, come aziende ed organizzazioni. Si va quindi a consolidare l’idea di un rapporto sempre più stretto e sinergico tra welfare pubblico e privato.  Questo tipo di azioni è sempre più richiesto dai dipendenti alle aziende. Varie ricerche nel settore confermano che il welfare è diventato una discriminante fra i criteri di scelta del posto di lavoro da parte dei potenziali dipendenti”. 

    A livello macro, ci fa sapere, le aree maggiormente segnalate dai rispondenti ad oggi sembrano essere: l’area economico finanziaria, l’area dei carichi di cura e l’area della mobilità.  E’ importante parlare di una componente del welfare aziendale che sta sempre più prendendo piede, ma di cui ancora si parla poco, cioè della necessità di indirizzare i propri lavoratori verso risorse e servizi già presenti sul territorio,  pubblici o derivanti da enti del terzo settore. E qui entra in gioco la figura –  temporanea o organica – identificabile nel ruolo di welfare manager che supporta le aziende nelle scelte strategiche in ambito welfare e supporta i dipendenti nell’utilizzo dei servizi e benefit che l’azienda vuole offrire loro”.

    Cinzia Ficco

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