Parla Valerio Ricciardelli, maestro del lavoro e past president di Festo CTE, autore di un libro
Se l’Italia, seconda manifattura in Europa dopo la Germania, non punta subito sull’istruzione tecnica di eccellenza, domanda e offerta di lavoro continueranno a non incontrarsi con grave danno alla produttività , ai conti pubblici, in particolare di quelli Inps.
Per dirlo Valerio Ricciardelli, maestro del lavoro e past president di Festo CTE festocte.it, ha scritto di recente un libro, intitolato: Ricostruire l’istruzione tecnica. Ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare (Guerini).
Proviamo a capirne di più con l’autore.
Dunque, troppi licei, mentre l’Italia, che avrebbe bisogno di almeno 100 mila periti, rischia di perdere il suo secondo posto in Europa.
La mancanza di tecnici per le nostre imprese industriali, definita in gergo il mismatch tra l’offerta e la domanda di competenze specialistiche e di professioni tecniche, è una emergenza che dura da anni, ne parlano tutti, ma oggi è arrivata a un punto assai pericoloso ed è la ragione per cui ho scritto un libro sull’argomento, con un titolo che non è solo provocatorio, ma evidenzia una oggettiva e seria preoccupazione. Ne scriveva già il Presidente Prodi nel 2016 affermando: “Il nostro Paese ha bisogno di un forte rilancio dell’istruzione tecnica. Oggi siamo di fronte a un vero e proprio dramma. I nostri Istituti tecnici, che hanno formato la classe dirigente dando certamente un forte impulso al nostro sistema industriale, vivono una profonda crisi”. Poi indicava che per far fronte a questa situazione bisognasse lavorare molto, perché l’argomento era assai complesso e indicava che occorresse innanzitutto far capire il problema al mondo politico, perché il nostro Parlamento era lontano mille miglia da questi problemi e chi ne parlava era ritenuto difensore di cose che interessavano a pochi. Da allora nulla è cambiato, anzi è peggiorato.
Perché?
Ne scrive anche il Ministro dell’istruzione in un suo recente libro, affermando “l’istruzione tecnico-professionale riveste un ruolo chiave per lo sviluppo e la crescita del Paese, ma la situazione italiana è preoccupante perché Unioncamere ha stimato che nei prossimi 5 anni serviranno oltre 500.000 tecnici dotati di competenze specialistiche che il nostro sistema scolastico non è attualmente in grado di offrire”. Inoltre, aggiunge che il “tasso di posti vacanti nel settore industria e dei servizi” secondo i dati Istat è triplicato dal 2016”, quindi è peggiorato. L’Italia rischia? Certamente, ed è la ragione per cui ne scrivo con molti approfondimenti nelle 250 pagine del libro, pur avendo la consapevolezza che il Paese non percepisce l’urgenza e l’importanza del problema. Il valore del rischio è poi quantificabile nella mancata crescita delle imprese, nella innovazione non continua, nella produttività stagnante, nel costo del lavoro per unità di prodotto in continuo aumento: tutti fattori che agiscono sulla stagnazione del PIL, a cui si aggiunge l’effetto sul sistema previdenziale, che essendo a ripartizione, avrebbe bisogno di avere tanti lavoratori con contratti non precari e stipendi medio alti, che versano i contributi previdenziali importanti per pagare le pensioni di oggi.
Di tutte le riforme della scuola, qual è quella che si è avvicinata all’ideale? E come immagina quella che potrebbe incidere in modo positivo sul Pil nazionale?
Le misure di politica scolastica decise nel tempo dai diversi governi, anche di segno opposto, alternatisi nel tempo, si sono rivelate del tutto insufficienti: o disastrose come la riforma Moratti che ha puntato sulla pseudo licealizzazione degli istituti tecnici, o fallimentari, come il riordino dell’istruzione tecnica e professionale disposto nel 2010 dal ministro Gelmini. L’istruzione tecnica e anche professionale, nel tempo sono state lasciate andare alla deriva, con un progressivo declino al punto che nell’immaginario comune l’istruzione tecnica è stata ed è ancora considerata un percorso scolastico di serie B, mentre l’istruzione professionale addirittura un percorso di serie C, entrambi poi contrapposti ai percorsi liceali considerati invece di serie A. Tutto questo origina anche da un cattivo e inadeguato orientamento scolastico che si è protratto per lungo tempo e ha reso non più attrattiva l’istruzione tecnica, contrariamente all’aumento di richieste di nuove conoscenze tecniche e organizzative e dell’importanza delle nuove professioni tecniche che via via emergevano nello sviluppo di un manufacturing avanzato mondiale con tutti i servizi ad esso associati. L’attrattività delle scuole tecniche e quindi dell’istruzione tecnica è il primo obiettivo su cui operare. Serve una offerta formativa adeguata che superi le criticità della inadeguatezza e obsolescenza curricolare, che si ispiri a una istruzione con una forte componente pratica, supportata da un serio orientamento che faccia conoscere quanto sia importante nell’economia mondiale il settore industriale e quanto possano essere attrattive le nuove professioni tecniche, contrariamente al luogo comune che le immagina come mestieri sporchi, pesanti e mal retribuiti.
Perché secondo lei si è sempre tentato di soffocare l’istruzione tecnica di eccellenza?
L’istruzione tecnica di un passato anche lontano funzionava, era coerente con il sistema economico industriale dell’epoca e ha formato la classe dirigente del Paese. Con i cambiamenti che sono avvenuti nel tempo nella nostra economia industriale e con la globalizzazione, l’istruzione tecnica non è più stata allineata ai bisogni di nuovi saperi, nuove competenze, all’individuazione di nuove organizzazioni aziendali e quindi di nuove professioni. È cambiato il sistema economico industriale e più volte, ma non si è adeguata l’istruzione tecnica alle trasformazioni aziendali che via via sono successe. Quindi non si è provveduto alla ricostruzione e al riadeguamento di quello che si chiama il sistema TVET, ovvero il sistema complessivo di istruzione e formazione tecnica professionale di cui avrebbe bisogno la seconda manifattura in Europa per continuare ad essere competitiva. Si è agito solo con alcuni inadeguati interventi di manutenzione dell’esistente, quando invece sarebbe stato necessario un grande progetto di totale reengineering di questo sistema scolastico. Non ha senso tirare in ballo la riforma Gentile. Se l’economia del Paese poggia su un settore industriale importante, se siamo la seconda manifattura in Europa dopo la Germania, se l’economia mondiale si è globalizzata estendendo gli orizzonti di competizione delle nostre aziende, è evidente che abbiamo bisogno di conoscenze, competenze, mestieri tecnici applicati, coerenti all’innovazione, al miglioramento della produttività, all’estensione dei mercati, alla crescita complessiva. Oggi lo dice anche il Censis nel suo rapporto 2023, che riporto nella prefazione del libro, quando afferma: “Alcuni processi economici e sociali largamente prevedibili nei loro effetti sembrano rimossi dall’agenda collettiva del Paese, o comunque sottovalutati”, chiudendo poi con l’affermazione che “la società italiana sembra così affetta da un sonnambulismo diffuso, in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali, di lungo periodo”. Nei processi economici e sociali ci sta anche la mancata occasione di considerare l’istruzione tecnica una leva strategica per fare crescita economica immediata e sostenibile, crescita occupazionale non precaria per professioni di media-alta conoscenza, e per modulare e valorizzare l’emigrazione economica all’interno di politiche efficaci di cooperazioni allo sviluppo, come per esempio fa la Germania.
A chi affiderebbe la gestione di questa istruzione tecnica di eccellenza, a quale ministero?
Non certo al ministero dell’istruzione, dove l’attività prevalente è la gestione dei processi amministrativi, quelli che in gergo aziendale si chiamerebbero i processi di supporto o di back office. Serve invece occuparsi, in modo adeguato, anche dei processi principali che devono essere guidati da una grande leadership situazionale, ossia conoscere il mondo in cui siamo immersi (intendendo il manufacturing avanzato, compreso il green, con i servizi associati) e sapere come costruire un sistema di istruzione tecnica di eccellenza che non sia solo reattivo alle esigenze del momento espresse dalle imprese, ma che sia soprattutto proattivo e agisca in modalità “push” con una visione anticipatrice dei cambiamenti. È la ragione per cui da tempo sostengo la necessità di un approccio concettuale che si muova nella filiera delle tre E, le inziali di Economy-Employability- Education. Serve quindi un ministero dedicato che contenga un mix di competenze di economia, sviluppo economico, politiche del lavoro – le funzioni servite dall’istruzione tecnica, e di istruzione tecnica compresa quella terziaria.
In due parole cos’è l’educazione tecnica e come si rende “impiegabile” da parte delle aziende?
Innanzitutto, la scuola è a servizio del sistema Paese. Dentro questo sistema ci sono i “mestieri” che mutano in continuazione, che sono le professioni tecniche, le quali non si occupano solo di tecnologia, ma di organizzazione, gestione industriale, innovazione, economia, sviluppo delle risorse umane composte da competenze costruite e aggiornate con saperi teorici, pratici e comportamentali. Questi mestieri sono ormai categorizzati in tre fasce di profili: low, riconducibile alle qualifiche della formazione professionale, medium riconducibile alla maturità quinquennale dell’istruzione tecnica e professionale e high riconducibile all’istruzione tecnica terziaria, oggi nel caso nostro offerta dagli ITS Academy. L’istruzione tecnica istituzionale che se ne deve occupare deve costruire e tenere aggiornata la cultura generale e specialistica di questo settore scolastico particolare, guardando oltre e più avanti i bisogni del momento delle aziende. Occorre fare chiarezza su un punto importante che spesso rimane nell’ambiguità.
Quale?
Le aziende hanno bisogno di competenze perché necessitano di prestazioni aggiuntive e migliorative rispetto alle attuali, ma il loro obiettivo non è certo quello di creare occupazione. L’occupazione è una conseguenza del soddisfacimento del bisogno di nuove prestazioni, se non lo si soddisfa con altri metodi. Oggi è vero che c’è una richiesta ancora enorme di tecnici, ma in parallelo ci sono ancora politiche di riorganizzazione aziendali basate sulla “lean factory” e “lean organization”, quindi di snellimento e riduzione del personale attraverso la spinta all’automazione. Il tema dell’employability resta invece a carico dell’istituzione pubblica che deve sì formare i tecnici, anche secondo i bisogni dell’economia, ma facendo in modo che l’employability delle persone formate generi una crescita occupazionale soprattutto non precaria. Ecco perché la scuola deve avere un ruolo proattivo e non solo reattivo e non deve guardare solo alle imprese e nemmeno delegare alle stesse dei ruoli che devono stare all’interno dell’organizzazione scolastica, o comunque di una istituzione pubblica.
Come dovrebbero attrezzarsi le aziende per individuare, trattenere e valorizzare talenti usciti da una scuola tecnica di eccellenza “rivisitata”?
Innanzitutto, i tecnici mancano e il calo demografico peggiorerà la situazione. Non c’è la ricetta miracolistica. Anche il mercato del lavoro si regge sul rapporto tra domanda e offerta. Ora la priorità è indirizzare i giovani a prendere in considerazione le professioni tecniche e renderle attrattive perché certamente offrono buone soddisfazioni professionali ed economiche, ma ci sono tante cose da fare. Poi come trattenere e valorizzare le persone è una questione di attivazione di una buona politica della gestione e dello sviluppo delle risorse umane. Le ricette giuste ci sono.
Più volte cita la Germania come modello. Qual è l’aspetto che dovremmo fare più nostro di questo Paese?
Le nostre aziende operano prevalentemente in un mercato globale e non in un mercato nazionale e l’Italia è il secondo paese manifatturiero in Europa, dopo la Germania che è al quinto posto nel ranking mondiale dei Paesi manufatturieri. Questo posizionamento competitivo, che ci auguriamo possa mantenersi ancora nel futuro, deriva anche dalle diverse e multifattoriali interazioni tra le aziende tedesche e quelle italiane. Quindi le due economie sono spesso interagenti tra loro e l’interazione è una cosa un po’ complessa. Noi spesso discutiamo di aziende come se fossero un soggetto ben definito e totalmente autonomo nelle loro attività. Non è così, c’è un livello di dipendenza da altri soggetti che condiziona tutta l’economia. L’unità che dobbiamo considerare, per ogni analisi che ci necessita, non è più la sola azienda, ma la sua completa supply chain che è il sistema composto da una filiera lunga fatta dall’azienda, dai suoi clienti e i clienti degli stessi e dai fornitori e i fornitori di quest’ultimi. Nel caso nostro, molte nostre aziende, soprattutto quelle medio piccole appartengono a supply chain più complesse di aziende tedesche, con un ruolo di subfornitura dove i driver decisionali appartengono alla grande industria committente, talvolta tedesca. Tale committenza non esita a sacrificare i subfornitori stranieri in caso di gravi difficoltà. Per tale ragione, nel caso della Germania, come citato in un recente rapporto Istat, la diminuzione della produzione industriale dello scorso anno di parte delle nostre aziende e che ancora si protrae, è dovuta alla crisi dell’industria tedesca, che si ripercuote immediatamente su tutta la filiera della supply chain. Cosa dovremmo fare più nostro della Germania? Ovviamente la qualità del loro sistema di istruzione tecnica e professionale, a tutti i livelli.
Per chiudere, una scuola tecnica vera in Italia potrebbe fare bene anche alla manifattura tedesca che impiega italiani. E’ così?
Una istruzione tecnica di eccellenza non solo può far bene alla manifattura tedesca, facendo allo stesso tempo bene alla manifattura italiana, ma contribuisce ad aumentare la competitività del manifatturiero in Europa che sta perdendo posizioni rispetto agli Stati Uniti e ai colossi asiatici. In ogni caso le complessive aziende tedesche in Italia sono circa 1700, con poco meno di 200.000 lavoratori, un fatturato poco al di sotto dei 100 miliardi e, se si analizza il fatturato pro capite, si evince che siamo in presenza di un settore economico ad alto valore aggiunto. Se analizziamo le imprese prettamente manifatturiere in Italia sono circa 366 mila, con poco meno di 4 milioni di occupati, di cui le aziende con meno di 20 occupati sono quasi la totalità (99%), ma impiegano 1/3 degli occupati e producono solo 1/5 del valore aggiunto, mentre il resto, costituito dai 4/5 del valore aggiunto e i 2/3 degli occupati proviene dalle circa 30.000 imprese con oltre 20 addetti che costituiscono il nocciolo duro dell’industria italiana. Tutto ciò al netto ovviamente del settore economico dei servizi associati al manufacturing.
Cinzia Ficco