22.9 C
Rome
Luglio 25, 2024
Focus

“Attenzione ai grandi tristi in azienda. Un peso per chi si prepara alle sfide future”

Così Gaia Morselli, Head of Consulting Services Great Place to Work Italia, sul quiet quitting

Qualche anno fa nel suo libro “L’intelligenza del lavoro”, Pietro Ichino, profetico, immaginava un mondo in cui sarebbero stati i lavoratori a scegliersi l’imprenditore. Ci siamo. Ma oggi il problema è sì quello dei giovani che vanno via e lasciano i boomer in azienda, ma soprattutto quello dei grandi tristi che non si dimettono, ma al lavoro rendono al minimo, sopravvivono, creando difficoltà a chi si sta preparando per le sfide del futuro.

Ne parliamo con la psicologa del lavoro, Gaia Morelli, Head of Consulting Services Great Place to Work Italia, che ci dice::“Dal nostro osservatorio possiamo dire che si tratta di un trend generazionale, inaugurato dalla fascia più giovane dei Millennials e definitivamente affermato dalla Gen Z. Chi cerca lavoro, o cambia lavoro, all’interno di questi gruppi è guidato dalla ricerca di “significato”  – il cosiddetto purpose– dalla possibilità di evolvere e imparare – opportunità di sviluppo e crescita- e dalla ricerca di flessibilità e autonomia nelle modalità di organizzazione del lavoro (smart-working). In questo senso quindi sì, direi che soprattutto le nuove generazioni scelgono l’azienda, o meglio l’ambiente di lavoro, e a volte anche il capo con cui lavorare. E se si accorgono di non avere fatto la scelta giusta, cambiano con altrettanta velocità. Oggi le aziende costruiscono percorsi di carriera con orizzonti temporali molto più brevi che in passato, massimo su 5 anni, sapendo che la permanenza media dei lavoratori di queste generazioni difficilmente sarà superiore. Per quanto riguarda i numeri delle dimissioni, in Italia per il momento siamo ancora in una fase propulsiva, che è iniziata nel 2021, quando si è iniziato a parlare di “great resignation”, ed è continuata nel 2022 (con 2,2 milioni di cessazioni) e nel 2023. Ma nel nostro Paese non si tratta perlopiù di pause di riflessioni o scelte drastiche di cambiamento di vita, quanto più di scelta di altre opportunità lavorative: nel 2023, a fronte di 3,3 milioni di cessazioni si sono attivati 4,3 milioni di nuovi contratti. Allo stesso tempo le aziende fanno fatica a reperire i “talenti” giusti: in questo momento Confindustria dichiara che il 54% delle aziende fa molta fatica a coprire le posizioni aperte. E credo che proprio questo sia il tema quando si parla di talento: non esiste una definizione teorica del talento.

Ma?

Ma un incontro generativo tra cultura organizzativa, ambiente di lavoro, purpose lavorativo e i talenti e le competenze della singola persona. L’obiettivo dell’azienda deve essere selezionare la candidata o il candidato giusti, non solo dal punto di vista di quello che sanno già fare, ma soprattutto della coerenza della persona rispetto al proprio ambiente di lavoro, e successivamente, di metterli nelle condizioni di rimanere per un tempo sufficientemente lungo perché abbiano la possibilità di mettere a frutto l’investimento in inserimento e formazione e dare valore all’intera organizzazione.

Le imprese italiane hanno il giusto appeal perché i talenti decidano di restare in Italia e non emigrare? E in genere com’è l’azienda che attrae i talenti?

Proprio in questi giorni è uscito il report Istat sul mondo del lavoro, che è davvero impietoso da questo punto di vista: la forza lavoro nelle aziende, infatti, sta invecchiando più velocemente di quanto stia invecchiando il Paese nel suo complesso. Rispetto al 2004 la quota di giovani tra i 15 e i 34 anni in azienda è diminuita più velocemente che nell’intera popolazione italiana: -11,5 punti rispetto a -6,3 punti, mentre tra gli ultracinquantenni il trend è opposto: +16,6 punti rispetto a +5,3 punti. E, malgrado l’aumento dei posti di lavoro disponibili, i giovani emigrano dall’Italia in proporzioni maggiori o uguali a quelle degli anni neri della crisi finanziaria. Su questo non ci sono dati certi, ma se si guarda ai giovani che cancellano la residenza in Italia – quindi probabilmente un dato sensibilmente minore rispetto a quello reale-, nel 2004 erano lo 0,23%, percentuale che è aumentata fino all’attuale 0,84%. Meno semplice comprendere le motivazioni dietro al cambiamento, in questo caso di paese. Sicuramente in un mercato del lavoro che sembra privilegiare boomer e lavoratori di maggiore età è più difficile riconoscersi in modelli di impresa basati su gerarchie, orari e modalità lavorative ancora novecentesche.

E quindi?

Se guardiamo alle nostre analisi, i fattori che per un giovane talento possono fare la differenza sono: Esperienze: la possibilità di apprendere ed imparare, la partecipazione a progettualità anche al di fuori del proprio ruolo, oltre ovviamente a chiarezza e trasparenza riguardo a percorsi di carriera, anche trasversali, e progressioni salariali sono aspetti determinanti. E possono aiutare anche ad alleviare l’ansia finanziaria causata nei più giovani dalla pandemia. Flessibilità: non solo orari e turni di lavoro, ma anche modalità agili (smart-working e video call) fanno parte del patrimonio lavorativo dei più giovani che, se da un lato sono flessibili nella disponibilità che mettono a disposizione dell’azienda, si aspettano lo stesso trattamento in cambio. Purpose: vogliono vedere come il proprio contributo supporti la missione di un’organizzazione e avere contezza dell’importanza della propria attività, non si accontentano di avere un lavoro, aspettandosi che le aziende esplicitino in modo intenzionale visione, missione e valori.

Poi?

Inclusione: emerge una grande sensibilità per i temi etici e di inclusione sociale, con aspettative di equità di trattamento complessivo (economico e di riconoscimento) indipendentemente da etnia, orientamento sessuale, età e genere. Iniziative di DE&I e ESG sono un fattore chiave per rafforzare il legame con i più giovani. Positività: una buona atmosfera lavorativa, un luogo dove potere essere sé stessi e avere relazioni positive con colleghi e superiori sono ulteriori caratteristiche importanti per lavorare sul fattore di sicurezza mentale e psicologica, che determina altresì le scelte dei più giovani rispetto all’ambiente di lavoro. Non dimentichiamoci che molti dei colleghi più giovani hanno fatto il loro ingresso nel mondo del lavoro in pandemia e sono guidati ora da un forte desiderio di connessione e autenticità, identificando l’azienda con un luogo in cui creare legami e condividere valori e interessi. Per finire, cercano Comunicazione: abituati ad avere informazioni immediate grazie a internet, i lavoratori più giovani sentono il bisogno di relazionarsi in maniera informale e sentirsi a proprio agio all’interno di processi chiari e funzionali. E in questo senso la comunicazione e la messa a disposizione delle informazioni aziendali può fare la differenza. Questi sono i 6 fattori su cui le nostre misurazioni ci indicano che le aziende Best Workplaces fanno maggiormente la differenza rispetto agli altri ambienti di lavoro e che dovrebbero essere nell’agenda delle funzioni HR, ma anche del management.

Tra i sei fattori manca la formazione continua.

Da una nostra ricerca del 2020 sulle caratteristiche più importanti in un ambiente di lavoro per i giovani tra i 20 e i 30 anni, le risposte si sono concentrate principalmente su aspetti di benessere e arricchimento professionale, confermando sicuramente il tema della formazione professionale, ma anche della serenità psicologica, delle relazioni con i colleghi e i superiori e della realizzazione professionale.

Come impostare una strategia per farsi notare dai talenti?

Dalle nostre analisi emerge come a fare la differenza non siano tanto le dimensioni dell’azienda o il suo brand, ma il fatto di avere una strategia HR strutturata – o anche un’Employee Value Proposition, cioè un’offerta di valore nei confronti dei propri collaboratori e di comunicarla e farne percepire il valore. Ci sono sicuramente dei temi che possono ormai essere considerati imprescindibili per i talenti e le nuove generazioni, come la flessibilità lavorativa (lavoro ibrido o smart), un’offerta welfare che non sia focalizzata solo su servizi per famiglie o in tema salute, ma anche su attività di svago e per il tempo libero, la strutturazione di momenti di feedback frequenti e formalizzati, la possibilità, meglio se formalizzata, di fare esperienze e seguire progettualità diverse in un orizzonte temporale non troppo lungo e, non da ultimo, un accesso semplice anche ai livelli più alti della gerarchia, senza troppi livelli e barriere, che permetta ai talenti e ai giovani di avere dei momenti di esposizione e costruzione di senso rispetto alla visione dell’azienda e a come il proprio percorso si inserisce in essa.

Cosa è fondamentale per un’azienda in fase di colloquio?

Spiegare qual è la visione dell’azienda nei confronti delle proprie persone e come il ruolo e la posizione proposta si inseriscono in questo quadro di insieme, valorizzando tutto quello che l’azienda offre. Allo stesso tempo, il punto di vista di chi fa il colloquio, soprattutto nelle prime fasi, è oggi più orientato a capire l’effettiva compatibilità tra tipo di organizzazione, cultura, approccio manageriale e le aspettative della persona. E lo stesso avviene dall’altra parte.

Cioè?

Le generazioni più giovani sanno che non stanno per affrontare un matrimonio di lunga durata, ma piuttosto un primo appuntamento di una possibile relazione di cui vogliono soprattutto capire i vantaggi e il valore che potrebbero trarne, sapendo che comunque ci saranno molti altri appuntamenti e altre relazioni durante il loro percorso professionale. E l’errore più grave che un selezionatore potrebbe fare in questa fase per accaparrarsi un talento è di non essere del tutto sincero e pensare che l’offerta economica possa sopperire un disallineamento culturale rispetto alle aspettative del candidato. Allora la relazione sarà di brevissima durata.

C’è chi proprio non resiste e se ne va.

Un’interessante ricerca di McKinsey di qualche anno fa sui temi della great resignation ha preso in analisi i motivi che spingono le persone a lasciare un’azienda, dal punto di vista di chi abbandona e dal punto di vista dell’azienda che viene lasciata. Il dato più interessante che emerge è che non c’è corrispondenza tra il punto di vista aziendale e quello delle persone. In particolare, le aziende sembrano sottovalutare gli elementi relazionali, come la mancanza di dimostrazione di apprezzamento da parte dei capi o dell’azienda stessa, un basso senso di appartenenza o relazioni poco positive con i colleghi. Le aziende sembrano focalizzarsi più su aspetti hard, come la retribuzione, i carichi di lavoro o le opportunità di sviluppo. E uno dei motivi principali per cui c’è questo disallineamento è che solo poche aziende ascoltano periodicamente e raccolgono KPI numerici sullo stato d’animo e sulle opinioni ed esperienze di chi lavora per loro, attraverso, ad esempio, processi di onboarding strutturati, momenti di feedback pianificati, questionari di employee experience o interviste prima dell’uscita (exit interview). Avere un riscontro numerico e oggettivo rispetto agli aspetti dell’ambiente di lavoro più importanti per le persone e che magari non stanno funzionando nel modo migliore è il primo passo per potere poi lavorare per fare rimanere in azienda le persone, soprattutto i talenti.

Oggi siamo ancora in una fase di numeri in crescita in termini di “abbandono”.

Come detto prima, sì, almeno per tutto il 2023, con numeri di cessazioni superiori ai 3,3 milioni. Ma oltre a questo, un aspetto che secondo noi le aziende non stanno ancora prendendo abbastanza in considerazione è quello di chi vorrebbe andarsene, ma non riesce o non ne ha l’opportunità. Nelle nostre analisi, infatti, approfondiamo anche il fenomeno del “quiet quitting”, di cui oggi si inizia a parlare come grande tristezza. Si tratta infatti di lavoratori insoddisfatti che in qualche modo tendono a ritirarsi dalle attività lavorative, a fare il minimo indispensabile, quello insomma previsto dalla job description e nulla di più. Se confrontiamo i dati di tutte le organizzazioni con cui lavoriamo con quelli delle aziende certificate Great Place To Work e, ancor di più, delle aziende Best Workplaces, le percentuali di collaboratori che possono essere considerati ritirati passa dal 2% all’8% fino al 18% nelle aziende medie. E da questo punto di vista per le aziende può diventare un problema di produttività e capacità di reazione alle sfide del mercato avere quasi un quinto della popolazione aziendale poco motivata e scontenta. Al contrario, ci sono molte aziende virtuose che invece lavorano sul benessere delle persone, anche attraverso l’ascolto periodico, e proprio di queste Great Place To Work parla quando pubblica le classifiche delle “Migliori aziende per cui lavorare in Italia”. Quest’anno abbiamo dato visibilità a 60 aziende selezionate sulla base delle valutazioni degli stessi dipendenti che si dichiarano particolarmente soddisfatti del lavoro e dell’ambiente lavorativo, esprimendo un indice di fiducia (Trust Index) nei confronti dell’organizzazione e dei propri capi particolarmente elevato. In queste aziende, all’opposto del quadrante dei quiet quitter, troviamo percentuali di ambasciatori aziendali particolarmente elevate, che raggiungono l’87% dell’intera popolazione.

Casi concreti?

Mi è capitato di recente di  parlare con la Manager HR di un’azienda manifatturiera di medie dimensioni che durante la pandemia ha dovuto riorganizzare i turni di lavoro per garantire il distanziamento tra i dipendenti del reparto produttivo, andando in un certo senso a peggiorare l’organizzazione degli orari di lavoro, almeno dal punto di vista dei lavoratori. Aveva però promesso che, terminata l’emergenza, la pianificazione sarebbe stata ristabilita secondo il modello organizzativo precedente. Nel frattempo, l’azienda ha attraversato un forte momento di crescita e quindi inserito diverse decine di persone nuove, anche nel reparto produttivo. All’inizio di quest’anno è stato finalmente annunciato il ritorno alla turnazione originaria, ma il management si è accorto che la maggior parte dei nuovi colleghi, e anche diversi degli operatori con maggiore seniority, si erano ormai abituati e organizzati e che il ritorno alla modalità precedente avrebbe nuovamente creato disagio.

Cosa si è fatto?

È stato quindi deciso, come prima cosa, di raccogliere informazioni numeriche e certe rispetto alle esigenze del proprio personale produttivo, attraverso un questionario, e, sulla base dei dati, i manager stanno cercando di organizzare le varie linee produttive con diversi modelli di turnazione, distribuendo le persone secondo le loro esigenze. E questo livello di ascolto e attenzione nei confronti delle persone può fare la differenza, soprattutto in un territorio in cui è molto difficile reperire manodopera qualificata e non perdere competenze diventa vitale.

Cinzia Ficco

Gaia Morselli

Esperta di «employee experience» e tematiche legate al miglioramento dell’engagement e della
soddisfazione delle persone negli ambienti di lavoro. È stata una degli artefici della crescita di Great
Place To Work a partire dalla fase di start-up fino ad oggi e da più di 15 anni si occupa di employee
experience, assessment e data analytics È psicologa e coach certificata e propone interventi di feedback individuale o di team coaching su gruppi di manager, con metodi di ascolto qualitativi e quantitativi.

Leggi anche

Industria 4.0: entro il 2025 il 34% delle imprese prevede di investire nella digitalizzazione dei processi

Cinzia Ficco

Il lato “sentimentale” del passaggio generazionale

Cinzia Ficco

Se lo store cambia, quali sono le nuove sfide per consumatori e retailer? I risultati di una ricerca

Cinzia Ficco