Il ribasso dei tassi
Nella riunione del 6 giugno, la Banca centrale europea ha ridotto il tasso di interesse principale di riferimento di 25 punti base, anticipando altre importanti banche centrali del mondo avanzato, Federal Reserve americana in primo luogo. Dopo due anni di continui rialzi, è arrivato dunque il momento della inversione del sentiero dei tassi di interesse nella zona euro.
Il punto di svolta nella politica monetaria è il risultato di un processo di disinflazione che persiste oramai da diversi mesi e che ha portato il tasso di inflazione nell’area dell’euro molto vicino al target di riferimento del 2 per cento.
Con la discesa dell’inflazione dal suo massimo raggiunto a metà del 2022, e con tassi di interesse nominali costanti, il tasso di interesse reale (cioè il tasso nominale aggiustato per l’inflazione attesa) continuava in realtà a salire. Perciò la Bce, pur rimanendo ferma, continuava indirettamente a inasprire il costo del credito e le condizioni di finanziamento per consumatori e imprese. Con l’inflazione prossima al target, questa posizione di attesa non era più sostenibile.
Quale sarà il percorso?
È legittimo chiedersi se la mossa della Bce preannunci ulteriori future riduzioni dei tassi, o se si tratti invece di un passaggio isolato. Quasi certamente si tratta di una inversione di rotta e dell’inizio di un sentiero di graduale riduzione dei tassi. La Bce si muoverà però con grande circospezione. È tipico delle banche centrali moderne procedere con gradualità e, soprattutto, evitare inversioni repentine del proprio percorso. La Bce non avrebbe ridotto ora i tassi di interesse se non si aspettasse di continuare a ridurli in futuro, seppur alternando con attenzione mosse al ribasso con mosse di attesa. Dopotutto, l’inflazione a maggio 2024 è risalita al 2,6 per cento su base annua, rispetto al 2,4 per cento di aprile. L’ultimo miglio sull’inflazione deve essere dunque ancora completato.
Di fronte all’inversione di rotta della Bce, la questione centrale diventa la seguente: il processo di disinflazione si è concluso? E in tal caso, si è veramente chiuso con costi quasi nulli in termini di crescita economica?
Per rispondere alla domanda è utile ricordare un affermato modello interpretativo dell’inflazione, altresì definito come modello reale dell’inflazione, o teoria della curva di Phillips. In base a questo modello, l’inflazione corrente dipende da tre componenti distinte. La prima componente è data dalle aspettative di inflazione. Più alta è l’inflazione attesa per il futuro, più alta sarà anche l’inflazione corrente. Infatti, se gli agenti si aspettano più alta inflazione futura, faranno oggi maggiori richieste di incrementi salariali, per proteggere il loro salario nominale dall’erosione del potere di acquisto (il salario nominale, una volta contrattato, rimane tipicamente fisso per un certo periodo di tempo). Il maggior costo del lavoro sarà quindi trasferito dalle imprese sui prezzi, aumentando l’inflazione corrente.
La seconda componente del modello reale dell’inflazione è data dal divario tra la crescita economica e il suo valore potenziale (o, alternativamente, dal tasso di inflazione in deviazione dal suo valore di lungo periodo). Quando l’attività economica reale eccede il potenziale, la domanda di lavoro cresce, e con essa i salari reali, spingendo l’inflazione verso l’alto.
La terza, e ultima, determinante dell’inflazione è data dagli shock esogeni di offerta: variazioni dei costi di produzione e di trasporto dei beni, variazioni dei prezzi dell’energia, delle materie prime, e del prezzo del petrolio.
Gli shock di offerta e le aspettative
Una interpretazione della dinamica dell’inflazione della zona euro negli ultimi tre anni segue questo modello reale. L’impulso iniziale all’inflazione, tra il 2020 e l’inizio del 2021, è derivato dal lato dell’offerta: la riapertura dell’economia dopo la pandemia ha creato colli di bottiglia nelle catene internazionali del commercio, facendo schizzare in alto i costi di trasporto. Contemporaneamente, l’inizio della guerra in Ucraina ha spinto al rialzo i costi di materie prime quali gas e petrolio, contribuendo a un repentino incremento dell’inflazione da costi. Il motore dell’inflazione è derivato dunque dalla terza componente del modello reale illustrato sopra, cioè gli shock di offerta.
L’andamento dei fattori di offerta ha seguito nel tempo una parabola a U rovesciata, con una inversione di rotta nell’ultimo anno e mezzo dopo aver raggiunto un picco a metà del 2022. L’inflazione della zona euro è quindi decollata con i fattori di offerta ed è tornata vicina al valore obiettivo del 2 per cento quando gli stessi fattori di offerta si sono ridimensionati.
A questo punto, è naturale una seconda domanda: perché la Bce ha dovuto rialzare i tassi di interesse in modo così deciso in questi ultimi tre anni? Se l’inflazione è stata guidata, prima verso l’alto e poi verso il basso, dall’andamento dei costi di produzione e di energia, e se la Bce non ha alcun controllo su questi fattori, non sarebbe stato sufficiente semplicemente attendere che gli stessi fattori di offerta seguissero il loro corso, senza intervenire sui tassi di interesse, rischiando una grave contrazione economica?
La risposta è nel ruolo della prima componente del modello reale di inflazione, cioè le aspettative. Il rialzo dei tassi di interesse è stato in realtà di cruciale importanza proprio per tenere sotto controllo le aspettative di inflazione, che si sono mosse solo in parte nella prima fase, ma senza perdere mai l’ancoraggio al target di inflazione della banca centrale.
In sintesi, l’inflazione nella zona euro ha seguito una parabola guidata dal terzo fattore del modello (gli shock di offerta), con il primo fattore (le aspettative di inflazione) quasi invariato, grazie alla restrizione monetaria da parte della Bce, e con il secondo fattore (la crescita reale) a sua volta quasi invariato.
Ci sarà il rallentamento dell’economia?
Rimane un punto interrogativo: come è stato possibile che la restrizione monetaria e il processo di disinflazione siano avvenuti con un cosiddetto “soft landing”, cioè senza significativi costi in termini di rallentamento dell’attività economica o di incremento della disoccupazione? Con il ritorno dell’inflazione al target del 2 per cento, le analisi dell’episodio inflazionistico post-Covid si concentreranno proprio su questo punto. Non è affatto detto che l’economia europea sia riuscita a evitare del tutto un rallentamento dell’economia. L’effetto della restrizione monetaria e del credito attuate nel recente passato si farà sentire solo con ritardo. È per questo motivo che i fattori di rischio dovrebbero definitivamente traslare dallo spettro inflazionistico a un possibile futuro rallentamento dell’economia. Sarà questa la preoccupazione centrale della Bce lungo il sentiero di discesa dei tassi appena intrapreso.
di Tommaso Monacelli
Tommaso Monacelli è professore ordinario di Economia presso l’Università Bocconi di Milano, e Fellow di IGIER Bocconi e del CEPR di Londra. Ha conseguito il dottorato in Economia presso la New York University, è co-editor o associate editor in riviste scientifi che internazionali, tra cui il Journal of International Economics, Economic Policy, il Journal of the European Economic Association, il Journal of Money Credit and Banking e la European Economic Review. Ha ricoperto la carica di adjunct professor presso la Columbia University, di visiting professor presso la Central European Universitye di research consultant per istituzioni e agenzie quali BCE, OCSE, FMI e Riksbank. I suoi interessi di ricerca riguardano teoria e politica monetaria e macroeconomia internazionale.