Alessandro Bruni, docente al corso di laurea in Ingegneria Gestionale dell’Università di Pisa

Come saranno le organizzazioni in futuro e di quale tipo di leadership avranno bisogno?
Ne parliamo con Alessandro Bruni, docente di Sviluppo Strategico al corso di laurea in Ingegneria Gestionale dell’Università di Pisa.
In un contesto di cambiamenti repentini, disordini geopolitici, e conseguenti incertezze, di quale tipo di leadership dovrebbero dotarsi le aziende per fronteggiare le sfide future?
“La domanda è pertinente, ma la risposta non è ancora disponibile nel senso che non ci sono modelli di leadership pronti per i tempi che corrono. Tutto è molto liquido ancora e quello di leadership è un concetto entrato in crisi ben prima dell’attuale congiuntura. Per anni una moltitudine di formule ha nascosto un’assenza di pensiero su come la leadership si estrinsecava – era cioè un rapporto di forza o di potere di carattere funzionale e regolato da scopi economici e da consuetudini culturali – Allora siamo andati alla ricerca di metafore alternative illuminanti: una che – per esempio – non ci aiuta è l’analogia con il meccanismo democratico. Viene spontaneo pensarci quando si parla di leadership diffusa o partecipativa. Ci è sfuggita la circostanza che potere, decisione e solitudine sono fortemente legati al fatto che nelle società umane le decisioni si prendono essenzialmente al vertice della organizzazione, sia essa sociale, politica o aziendale. Siamo antropologicamente fatti così.
Non pensa che una leadership diffusa, plurale – oggi tanto invocata – tenda a deresponsabilizzare e non aiuti a tenere la barra aziendale dritta?
La responsabilità può essere regolata in maniera relativamente facile e diretta attraverso il meccanismo degli obiettivi. La diffusione di questo meccanismo di responsabilità in verticale (gerarchia) e orizzontale (funzione) dovrebbe tendere – contrariamente all’osservazione contenuta nella sua domanda – ad alzare il livello di performance, attivando un maggiore coinvolgimento e maggiore sensibilità alla responsabilità. Si tratta – piuttosto – di meccanismi molto instabili e difficili da controllare. Uno degli ultimi modelli ‘popolari’ di responsabilità diffusa, chiamato Holacracy e codificato qualche anno fa da Frederick Laloux (un ex McKinsey) è molto interessante: si tratta di una organizzazione decentrata – questo è un termine geometrico più promettente di diffusa – con forte autonomia – altro termine più interessante di plurale, di tipo operativo. Resta il problema del tempo, dell’energia, dei processi e sistemi che servono a garantire coordinamento, coerenza, sintesi e controllo. In effetti tutti i meccanismi di delega richiedono molta più attenzione di quelli strettamente gerarchico-esecutivi. Probabilmente – però – la strada è questa e non per questioni etiche, ma perché in linea generale la complessità si domina meglio se viene scomposta. Nei paesi nordici – per esempio – i meccanismi decisionali sono molto più decentrati che in Italia: noi facciamo fatica su questo fronte.
Partecipazione gestionale, finanziaria, organizzativa e consultiva dei lavoratori alle imprese: cosa pensa della proposta di legge di iniziativa popolare della Cisl?
Sì, penso che si debba andare in quella direzione, ma servono alcune condizioni:
1 una forte partecipazione da parte dei lavoratori, la disponibilità a rischiare e a investire di più nel proprio lavoro e ad essere disposti ad accrescere costantemente le proprie competenze, uscendo da zone di comfort che stanno diventando molto pericolose.
2 più potere, capacità relazionali e cultura per i manager.
Per quanto riguarda le imprese, la partecipazione deve essere adeguatamente remunerata in termini di coinvolgimento anche economico nei risultati. Siamo lontani. Insisto sulle competenze: nel presente e nel futuro il vero asset professionale a tutti i livelli sarà la capacità di mantenere e sviluppare competenze distintive. La metafora a cui attingere è il mondo della consulenza, sempre molto dinamico e vincente.
Leadership e Ai: quale dovrebbe essere il rapporto ideale, cosa delegare all’Ai e cosa trattenere?
L’AI è uno strumento nuovo: un tempo si facevano i calcoli a mano, poi con la calcolatrice, successivamente con Excell. Oggi abbiamo uno strumento molto efficace, a patto che sia usato in un contesto con molti dati (informazioni) e adeguatamente ‘normalizzato’, cioè facilmente comprensibile. L’Ai – ricordiamolo – non è dotata di alcuna effettiva intelligenza, ma è rapida e sempre più flessibile. Ci abitueremo presto ad usarla, ci adatteremo a mettere più ordine nei processi decisionali, a ridurre l’entropia e la complessità dei nostri processi per farci aiutare da uno strumento che funziona meglio in contesti relativamente pre-ordinati. Il meccanismo decisionale – che nasce dal saper fare domande molto più che dal saper dare risposte – resterà in mano all’uomo che saprà assumere decisioni più brillanti proprio perché l’AI lo aiuterà ad allargare o restringere l’ambito di pertinenza entro il quale prendere la decisione. Non saprei – invece – dire ancora quale sia il grado di automazione dei processi operativi cui ci spingeremo con l’AI. In una recente ricerca che ho condotto per conto di Federmanager con il Professor Andrea Bonaccorsi dell’Università di Pisa, abbiamo riscontrato che il mondo delle imprese è spaccato un po’ in due estremi: aziende in attesa che l’AI si trasformi in una applicazione ready to business e aziende che si sono attrezzate ad usarla già da molto tempo. Le seconde sono aziende che hanno più chiaro cosa vogliono ottenere, migliorare nei campi di applicazione più critici o dove si genera più valore, siano essi l’ambito della Ricerca & Sviluppo, del Marketing e Vendite, del Controllo della Gestione o della Produzione e Logistica.
Cosa in futuro determinerà il destino di un’azienda?
Capacità di leggere il mondo, competenza, creatività diffusa, fantasia, rapidità, super-talento, flessibilità operativa, rigore etico, bellezza e gioia nel fare. I dipendenti oggi si sentono sotto pressione perché devono fare di più con meno tempo e risorse. Le persone sono esauste e demotivate. Si sentono disconnesse e non apprezzate. Questo, ovviamente, influisce sulla produttività, sulla crescita e sul profitto. Si deve creare una cultura della prosperità non solo materiale con motivazioni oneste e metodi professionali. La cultura della prosperità include la vitalità fisica, la stabilità emotiva e la chiarezza mentale. Questa formula richiede di investire tempo ed energia nel coltivare e approfondire le relazioni. E il modo più efficace per approfondire e coltivare le relazioni è avere il coraggio e la capacità di sostenere conversazioni difficili. Ciò genera la carica necessaria per prendersi rischi sani e affrontare le sfide insieme. Questo vero e proprio lavoro riporta un’organizzazione squilibrata e sotto stress all’equilibrio ed alla coesione. Si tratta di una sorta di scienza nuova!
Ci aiuti a tracciare il profilo del leader del futuro: avrà maggiori competenze umanistiche o scientifiche?
Io sono laureato in filosofia e non resisto alla tentazione di dire che prevarranno le umanistiche! A parte gli scherzi, in un mondo sempre più disposto verso la tecnologia e culturalmente complesso, a livello di leadership potrebbe essere più facile per un umanista apprendere rapidamente una tecnica che per un tecnico sviluppare uno stile di direzione. Forse perché gli umanisti sono più abituati all’idea che non è necessario ridurre oltremodo la complessità per poterla affrontare. In generale – però – i migliori leader nella storia sono sempre state persone che hanno espresso contemporaneamente una grande inclinazione sia per le arti che per le scienze: strano a dirsi, ma in greco antico ‘Arte’ si dice ‘Techne’. Dunque, il modello STEM (Scienza, Tecnologia, Economia & Matematica), che domina nei paesi anglosassoni, dovrebbe almeno evolvere in STEAM, aggiungendo nel mezzo delle conoscenze semi-esatte anche l’Arte. Ai livelli più alti le cosiddette discipline razionali, tecniche o scientifiche lavorano prevalentemente su modelli astratti, più vicini alla filosofia che alla tecnica esecutiva. Il leader del futuro sarà – anche – essenzialmente un ricercatore sperimentale in tutto ciò che farà. A questo proposito io e Joe Weston, coach americano che ci aiuta anche nel Master sulla Scalabilità d’Impresa, tentiamo di sperimentare nuove vie in tutte le relazioni, uscire dalla polarità del conflitto e del timore, e accogliere novità. Infine il leader del futuro – e del presente – è una persona che sa prendersi cura di sé e degli altri in modo spontaneo, coraggioso e gentile.
Laureato in Filosofia, è fondatore di Naìma, Brain Trust dedicato allo sviluppo d’impresa. Ha contribuito al lancio di diverse start-up a sfondo tecnologico fra cui Abla, azienda leader nel campo del linguaggio automatico applicato alle transazioni di business. E’ Certified International Trainer in Strategic Selling e Conceptual Selling, presso Miller-Heiman Institute e docente presso Fondazione IDI. Collabora con il master Palestre delle Professioni Digitali sul tema dello sviluppo strategico e del marketing 2.0. Insegna Sviluppo Strategico al corso di laurea in Ingegneria Gestionale dell’Università di Pisa. È autore del libro ‘Senza aspettare Godot’ edito da GoWare e dedicato allo sviluppo strategico d’impresa.
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