Nel libro la Cura (FrancoAngeli), Riccarda Zezza spiega perché in ambito lavorativo siamo più freddi

In ambito lavorativo non siamo abituati a prenderci cura, così come facciamo in famiglia, tra amici e in tutte le relazioni che abbiamo. Eppure, la specie umana vive e lavora meglio in presenza di cura.
Ma perché abbiamo deciso che i posti di lavoro sono luoghi in cui possiamo farne a meno?
La domanda se l’è posta Riccarda Zezza, che dopo essere stata, manager in grandi aziende in Italia e all’estero, nel 2025 ha fondato Lifeed lifeed.io/, un’azienda di education technology, nata sul metodo Life based Learning, descritto nel libro MAAM – La maternità è un Master e di recente ha scritto un libro, dal titolo Cura (FrancoAngeli), in cui invita manager e imprenditori ad essere in azienda più sensibili alle emozioni.
Riccarda, dunque, vede poche aziende interessate al benessere del personale? Ma cosa intende per cura in azienda più benefit, più smart working, più ascolto da parte dei manager?
La cultura del lavoro ha spesso privilegiato un modello di lavoratore ideale che è sempre disponibile, non ha emozioni né incertezze, e non invecchia mai – nemmeno fosse un robot. Questo modello è in netto contrasto con la realtà umana, che è caratterizzata da vulnerabilità, sentimenti e cambiamenti continui. La separazione tra cura e lavoro ha quindi creato una tensione insostenibile nella società contemporanea. La rivoluzione industriale ha sacrificato la cura all’efficienza, mentre la rivoluzione digitale l’ha barattata con il tempo. Questo ha portato all’illusione che la cura potesse essere delegata a momenti specifici della vita, marginalizzandola dalle nostre giornate lavorative. Ma la cura è intrinseca alla nostra natura umana nel quotidiano e non può essere esclusa senza gravi conseguenze, anche in termini di rendimento e motivazione. C’è nel lavoro una dignità dell’essere che non può essere negata a nessuno: c’è la possibilità di esprimere sé stessi in modo attivo e creando un impatto intorno a noi. Ma, perché questo avvenga, occorre:
1. sapere perché lavoriamo e conoscere l’impatto del nostro lavoro;
2. avere chiaro in che modo, lavorando, ci prendiamo cura di noi, degli altri e del mondo;
3. che la dimensione del nostro lavoro si componga in modo armonico con le altre nostre dimensioni: la famiglia, il sé, l’amicizia, gli eventi della vita, il movimento del mondo, lo scorrere del tempo. Se essere un lavoratore diventa invece una dimensione isolata e a sé stante, estranea al resto della nostra vita, tra chi siamo e ciò che facciamo, nasce un senso di alienazione e di disconnessione, che indebolisce la portata identitaria della nostra dimensione lavorativa. E di conseguenza il nostro desiderio di investire passione e capacità nel lavoro stesso.
I manager, dunque, non sanno prendersi cura dei propri dipendenti?
Un insieme di regole non dette fa sì che nel luogo e nel ruolo in cui passiamo la maggior parte del nostro tempo siamo incentivati a instaurare un regime di relazioni fredde, o comunque contenute, limitate a emozioni socialmente accettabili. Ovvio che non ci riusciamo, non ci siamo mai riusciti. Siamo, come ha scritto la neuroscienziata Jill Bolte Taylor esseri senzienti che pensano (La scoperta del giardino della mente. Cosa ho imparato dal mio ictus cerebrale 2009, di Jill Bolte Taylor) i sentimenti ci raggiungono in modo più veloce dei pensieri e licondizionano.Sentiamo, insomma, prima di pensare. Alla comprensione e gestione delle emozioni è preposto un intero set di competenze, le cosiddette competenze soft, in particolare quelle dell’intelligenza emotiva, che oggi sono molto ricercate nel mondo del lavoro. Sappiamo quindi, ce lo siamo detti formalmente, che le emozioni sono previste in orario d’ufficio, e sappiamo anche che sono necessarie delle competenze per gestirle, soprattutto se si devono coordinare delle persone. Quando un manager si sforza di usare la cura con i propri collaboratori, manda dei segnali costosi perché svolge attività scomode, come aprire conversazioni nuove con un collega apparentemente triste o stressato, e che non hanno un beneficio immediato per lui. Purtroppo, ancora oggi i rischi che comporta farlo, anche solo perché si teme di doverne gestire le conseguenze, sono più noti dei benefici, e questo spiega perché la cultura manageriale è resistente alle contaminazioni della cura, e i manager possono giustificarsi. Nel libro presento cinque tipi di scuse, legate all’efficienza e al risultato, che consentono ai manager di non usare i superpoteri della cura.
Dunque, troppi oneri
I nostri uffici sono il luogo di un’invasione di comportamenti bystander e nessuno si sente più responsabilizzato ad aiutare gli altri, o a soccorrerli quando sono in difficoltà. L’influenza sociale è evidente e necessaria: se un comportamento di mancanza di cura non avesse una validazione sociale verrebbe sostituito da comportamenti differenti. Quel che è peggio, all’inerzia di un sistema che ci autorizza a comportarci da spettatori, incentivandoci in negativo (non fare), si aggiunge un’idea di efficientamento che cambia l’ordine delle priorità e, nella scelta tra risultato e cura, dà il via libera alle prassi del disinteresse e dello sgarbo. In nessun posto come sul posto di lavoro possiamo non salutarci, non interessarci della salute dell’altro, non preoccuparci del tono di voce che usiamo, preferire l’economia delle parole alla chiarezza, ignorare i segnali relazionali di chi abbiamo intorno, disinteressarci del contesto e fare finta che esista solo l’obiettivo economico, immerso in un vuoto cosmico di umanità. Ci è permesso. Non solo: ci è suggerito. Basti pensare a quel che si dice delle persone fredde (così efficienti!) e di quelle emotive (così imprevedibili!). È come a caccia o in guerra: il mondo del lavoro ha sdoganato delle regole sociali tutte sue, che sovrascrivono le altre in nome di un obiettivo comune: la preda, la vittoria, il profitto. Solo che, diversamente dalla caccia e dalla guerra, il lavoro riempie le nostre vite e le sue dinamiche sono pervasive. Invece di bilanciarsi con l’umanità dagli altri aspetti della nostra vita, il lavoro ibrido e ipertecnologico ha rotto gli argini e le sue regole sociali hanno invaso ogni luogo, anche le nostre case, anche le nostre famiglie, le nostre società.
La cura è sempre reciproca?
Possono esserci periodi di stanchezza, delusione e demotivazione, ma poi la cura deve tornare in qualche modo a dare senso ai gesti delle nostre giornate. Perché, come per le storie d’amore, una lunga assenza di cura, data o ricevuta, spegne ogni cosa e non è sempre possibile “recuperare”. I gesti si fanno asciutti, le giornate sempre più lunghe, noi sempre più quieti – se non ci sveglia un evento, un incidente, una pandemia, una rivoluzione – e possiamo convincerci che è così che deve essere, che l’amore prima o poi finisce per tutti. Oppure possiamo riscuoterci e, attraverso uno sguardo di cura su noi stessi, metterci in luce nella nostra importanza, che deriva dalla nostra possibilità di essere e dare, e quindi trovare il coraggio e prenderci la responsabilità di cambiare, per tornare a mettere cura – passione, amore, dedizione, grazia – nel nostro lavoro.
Che cosa ne riceviamo in cambio?
Qui sta la magia della cura: non ha bisogno di premi, basta che ci sia per stare meglio, senza bisogno di riconoscimenti esterni. La cura è una relazione – con le cose, le persone – senza attesa: per esserne definiti è sufficiente darla, non serve che qualcuno ce la riconosca. Prendersi cura, infatti, ci definisce: rende più chiara la nostra identità, ci avvicina a quel che siamo nel profondo, e questo avviene anche se l’oggetto della nostra cura non ci restituisce cura.
Si possono “quantificare” i risultati di un’azienda in cui imprenditori e manager si prendono cura del personale?
Basta osservare una persona mentre fa il suo lavoro, qualunque esso sia, per vedere la differenza tra la presenza e l’assenza di cura. Non solo nel risultato – uno sbuffo a forma di cuore dentro a un cappuccino – ma anche su di lei – un sorriso, un’anima quieta – e su di noi. La cura passa di mano: se riceviamo cura, saremo istintivamente portati a darne. Non solo nelle fasi della vita in cui ci è necessaria per sopravvivere, anche nei piccoli gesti quotidiani che non devono sempre dire qualcosa. È soprattutto lì, nelle piccole cose di ogni giorno, che la cura fa la differenza. Non deve essere una cura ragionata: può diventare un’abitudine, un modo di guardare, un modo di muoversi. Può tornare a essere una nostra caratteristica naturale che ci sorprenda quando, invece, non c’è. Non ci ruberà tempo, non ci chiederà più di quanto siamo pronti a dare. Non dobbiamo avere paura delle conseguenze della cura: del bisogno, della trasparenza, della vulnerabilità. Perché, insieme a loro, arriveranno la dolcezza, la forza, la capacità di stare nell’ambiguità e nell’incertezza. La tolleranza all’imperfezione di chi sa chi è… e perché è.
Cosa succede se, al contrario, la cura è scarsa o manca?
La crisi della cura è una crisi di senso. Non mettere cura nel lavoro che facciamo indica che non riusciamo ad attribuirvi un significato al di là di quello materiale del guadagnarsi da vivere: lo rendiamo un gesto meccanico. Ma noi non siamo macchine, non lo saremo mai, e avremo sempre bisogno di dare e ricevere cura in quel che facciamo. Possiamo farlo: possiamo non mettere cura nelle cose che facciamo, e possiamo farlo anche a lungo, anche per sempre, ma è come togliere nutrimento alla nostra identità, è come doverci dimenticare, per otto-dieci ore al giorno, chi siamo.
La cura è un “atteggiamento” che si può imparare e come?
La cura non è in quello che facciamo, ma in come lo facciamo: per questo può essere ovunque, in qualunque professione, in qualunque relazione, in qualunque circostanza. Quando in un ruolo c’è cura, è come quando in una relazione c’è amore: si vede. Non mancano i conflitti, ma sullo sfondo ci sono un’energia sempre viva, un desiderio, una curiosità e, soprattutto, un coraggio che indicano la visione di un progetto più grande, a lungo termine. E poi nelle piccole cose ci sono un’attenzione, uno spazio di attesa, una meraviglia intermittente, che non hanno sempre bisogno di spiegazioni e di buone ragioni, ma avvengono semplicemente, come se fossero inevitabili, connaturate nella relazione. Così, lavoriamo con amore. Quando sappiamo perché lo facciamo, quando sappiamo che farlo ci viene bene, quando sappiamo chi siamo nel farlo e perché siamo proprio noi, lì, a fare quel lavoro, che non deve essere il lavoro perfetto o l’unico, ma è il nostro lavoro. Mettere la cura nel potere lo trasforma in responsabilità: perché il potere è prima di tutto la possibilità di agire con cura che abbiamo sempre a portata di mano… se siamo disposti a prendercene la responsabilità.
C.F.