Inchiesta tra esperti del tema
L’autonomia differenziata è legge dello Stato ma è divenuta subito materia di scontro nelle opposizioni. Al di là del merito politico è importante comprendere quanto possa influire sulle imprese e sul loro modello di business, proprio in relazione ai possibili scambi commerciali con le altre realtà economiche italiane.
Le regioni possono essere maggiormente indipendenti con l’autonomia differenziata sia in campo
legislativo sia in quello fiscale. Questa proposta sostenuta dal governo ha suscitato un forte dibattito ratioiuris.it/lautonomia-differenzia su alcune criticità del disegno di legge. Non sono mancati vantaggi e svantaggi wired.it/article/autonomia-differenz che producono riflessioni e commenti. Scendiamo nel dettaglio con l’analisi realizzata da Wired wired.it/article/autonomia-differen «Vantaggi. Maggiore adattamento alle esigenze locali. Le regioni avrebbero la possibilità di legiferare su materie che rispondono meglio alle specificità e necessità locali come sanità, istruzione e trasporti, migliorando l’efficacia dei servizi pubblici. Ritenzione del gettito fiscale. Le regioni potrebbero trattenere una parte maggiore delle tasse raccolte, consentendo di finanziare direttamente i servizi e le infrastrutture necessarie, potenzialmente migliorando la qualità della vita dei cittadini. Incentivo alla competizione. L’autonomia potrebbe stimolare una competizione positiva tra le regioni, incoraggiando l’innovazione e l’efficienza nella gestione delle risorse pubbliche. Svantaggi. Aumento delle disuguaglianze. C’è il rischio che l’autonomia differenziata possa accentuare le disuguaglianze tra le regioni del Nord e del Sud Italia, poiché le regioni più ricche potrebbero beneficiare maggiormente delle risorse fiscali, mentre quelle più povere potrebbero trovarsi in difficoltà. Sottrazione di risorse alla collettività. La decentralizzazione delle risorse potrebbe portare a una diminuzione delle risorse disponibili per il welfare nazionale, compromettendo l’uguaglianza dei servizi pubblici su tutto il territorio. Compromissione dei servizi nazionali: La divisione delle competenze potrebbe disarticolare servizi essenziali, come i trasporti e la sanità, rendendo difficile garantire standard minimi di prestazione su scala nazionale. L’autonomia differenziata presenta opportunità per una governance più locale e reattiva, ma anche sfide significative legate alla coesione sociale e all’uguaglianza dei servizi».
Francesco Fravolini
Sull’argomento la redazione di Aziendatop.it ha raccolto vari pareri, che pubblichiamo qui di seguito
«Per rafforzare le imprese serve geopoliticamente un paese più forte e non regioni più forti»
Segretario generale di Assodorso, segretario nazionale Movimento culturale Unità Mediterranea
Le opinioni sull’autonomia differenziata sono diverse e sollecitano una discussione al fine di evidenziare criticità e svantaggi di un provvedimento normativo che potrebbe rivelarsi negativo per le imprese.
Per capire queste peculiarità abbiamo raccolto l’opinione di Francesco Saverio Coppola, segretario generale di Assodoro assodorso.it/ segretario nazionale Movimento culturale Unità Mediterranea, Coordinatore A.I.M (alleanza Istituti meridionali di ricerca e promozione sociale), Coordinatore Comitato scientifico ODEAS – Osservatorio di Economia e Azione sociale (OBI- Osservatorio di Economia regionale), Presidente della Banca delle risorse immateriali, ente non profit, Presidente della Gruppo Seniores Banco di Napoli, ente non profit.
Con Francesco Saverio Coppola vogliamo analizzare in maniera più approfondita l’argomento per conoscere le peculiarità di un cambiamento che non è soltanto costituzionale ma riguarda anche l’aspetto economico delle imprese.
In che modo l’autonomia differenziata può influenzare l’attività delle imprese sparse nelle regioni italiane?
«La legge sulla autonomia pone diverse problematiche nuove al Paese sia in termini di ripartizione dei fondi sulle cosiddette materie delegate sia sulle procedure burocratiche fra Regioni e Stato Centrale. Non è ancora chiaro con quali criteri in termini di quantità e in termini temporali saranno trasferite somme dallo Stato centrale alle singole regioni, soprattutto laddove le deleghe interessino beni infrastrutturali fino ad ora indivisi e che potranno ricadere nella gestione delle singole regioni, creando di fatto forme di catasto regionale. Sicuramente il tetto sarà rappresentato da una percentuale del gettito fiscale regionale, senza tener conto per le imprese del valore aggiunto prodotto in altre regioni del Paese, ma basandosi solo sulla sede legale dell’azienda.
Siccome ogni regione potrà chiedere più o meno deleghe avremo un paese a geometria fortemente variabile in termini di competenze autorizzative, deliberative ma anche di personale addetto sia livello regionale che nazionale. Sarà necessario predisporre una carta geografica di funzionamento istituzionale per capire come, dove e quanto. Resta la confusione istituzionale fra Regioni ed Enti locali che rimangono ancorati al TUEL con maggiori rapporti funzionali con lo Stato nazionale più che con le regioni di appartenenza. Anche le imprese saranno soggette al cambiamento istituzionale con l’aumento delle potestà regionali e della loro
autonomia nella gestione delle risorse finanziarie, salvo il vincolo europeo degli aiuti di Stato che dovrebbero, anche per le Regioni, fissare dei limiti di intervento a favore delle PMI. Se tutte le regioni aderiscono all’autonomia differenziata le considerazioni sono molte diversificate per le PMI in relazione al loro perimetro produttivo e di mercato. Sappiamo che le aziende italiane sia nel Nord che nel Sud del Paese sono di piccole dimensioni e fanno parte di filiere che esauriscono il loro effetto a livello regionale. Per queste aziende non ci dovrebbero essere grandi variazioni, salvo il rischio di una maggiore attenzione fiscale da parte delle Istituzioni volte ad aumentare il gettito regionale. La visione di economie chiuse tipico dell’autonomia differenziata potrebbe spingere molte regioni a visioni autarchiche di sviluppo con vantaggi delle aziende a carattere locale. Per le aziende che operano a livello multiregionale o con filiere lunghe, la diversità di regolamentazioni, potrebbe portare a maggiori costi, ma anche a maggiore difficoltà di mercato.
Qualche esempio?
I vari tentativi presenti in alcune regioni del Sud e anche del Nord del cosiddetto compra regionale. Tutto questo va letto anche alla luce delle politiche di coesione europee che porterebbero ad accentuare le contraddizioni fra visioni localistiche e nazionali. Diverso ragionamento riguardano le politiche attrattive, in questo caso le regioni più evolute dal punto di vista economico e infrastrutturale avranno maggiori opportunità a scapito delle regioni meno infrastrutturate e con scarsa densità imprenditoriale. Questo non vale solo per le opportunità che le Regioni potranno offrire alle imprese che decidano di allocarsi, ma anche per l’attrazione di mano d’opera a scapito di altri ambiti regionali. In un paese con un forte divario territoriale come L’Italia sul Pil pro capite l’accentuarsi delle differenze reddituali comporterà per le imprese insediate anche in altri territori perdite di fatturato ulteriore, salvo politiche nazionali di riequilibrio (tra cui i famosi LEP) tutto ancora da definire in termini di spesa aggiuntiva dello Stato. Anche la Z.E.S unica nel Mezzogiorno trova una contraddizione nel frazionamento delle politiche regionali che si moltiplicheranno. Discorso diverso per le grandi aziende, ma per quelle poche italiane che esistono e per le straniere non è un vero problema. Pertanto, hanno superato i problemi della globalizzazione e sono sufficientemente vaccinate, l’autonomia differenziata comporterà delle difficoltà ma superabili. Un’ultima considerazione.
Prego.
Riguarda la tenuta delle organizzazioni territoriali rappresentative delle imprese. Oggi pur avendo una politica decentrata, resta un confronto e un peso a livello nazionale. In un Italia invece frazionata le rappresentanze territoriali necessariamente saranno portate a svilupparsi a livello locale come strategie e quindi tende a ridursi il peso delle azioni nazionali. Questo vale per Confindustria, ma anche le diverse organizzazioni del Commercio e ancora di più per le organizzazioni agricole. Un discorso a parte meriterebbe l’attività imprenditoriale del Terzo settore (associazioni, cooperative sociali e altro), che subirà molti cambiamenti per l’avvento dell’autonomia differenziata. Sicuramente il Terzo settore nel Nord del Paese beneficerà di maggiori opportunità. In conclusione, il sistema imprenditoriale, salvo un momento iniziale di confusione informativa ed economica, si adatterà al nuovo paradigma ma chi ne soffrirà saranno il Paese e il debito pubblico».
L’autonomia differenziata favorirà la crescita e l’innovazione nelle PMI?
«Se si confrontano il numero delle imprese e le loro dimensioni a livello regionale, certamente l’impianto regionale tradizionale vigente negli ultimi cinquanta anni ha influenzato poco non solo le quantità ma anche le dimensioni. Non solo. La forte autonomia delle regioni nella gestione delle politiche di innovazione non ha prodotto grandi risultati sia sui processi innovativi sia sull’aumento della spesa in ricerca e sviluppo. Abbiamo avuto 20 politiche diverse per l’innovazione ma con risultati molto modesti. Il Paese dagli anni 2000, come dimostrano le statistiche europee, ha perso competitività soprattutto nelle regioni del Nord. L’illusione è che l’autonomia differenziata possa cambiare questa tendenza certamente non positiva. Non ci si rende conto che le trasformazioni interessano territori molto più vasti e quindi per rafforzare le
imprese serve geopoliticamente un paese più forte e non regioni più forti. In tempi non lontani ci eravamo innamorati per le imprese dello slogan piccolo è bello, mentre avanzava la globalizzazione. Adesso stiamo facendo lo stesso errore a livello Istituzionale».
Venti modelli di economia differente come cambiano i rapporti commerciali con l’estero?
«Non credo che vi sia una grossa variazione rispetto a quella attuale, dove l’impresa da tempo ha imparato a fare da sé. Sicuramente dovrà capirsi meglio quale ruolo rivestiranno l’ICE e la Sace che attualmente operano a livello nazionale. Lo stesso problema si pone per quelle azioni che le ambasciate e i consolati oggi, se pur in parte modesta rispetto ad altre nazioni, svolgono a livello nazionale. Non vedo come le singole regioni potranno interagire con ambasciate nazionali o con le missioni governative internazionali che risentono della politica estera del paese. Penso che nei fatti le politiche del commercio con l’estero resteranno nelle mani del governo nazionale, mentre a livello territoriale si potranno creare strutture organizzative per operare. Lo stesso ragionamento vale per strutture logistiche come i porti, che non possono essere assoggettate a visioni regionali e risentono anche di forti vincoli non solo di politica estera, ma anche di difesa».
Quali asset economici sono maggiormente esposti a modifiche strutturali e quali maggiori costi?
«In presenza di normative diverse, le imprese che vogliono operare in mercati multiregionali dovranno sostenere maggiori costi informativi nella fase iniziale. Ovviamente la transizione digitale renderà meno oneroso il cambiamento ma tenderà anche maggiormente a livellare le differenze. Cambieranno le politiche di comunicazione e quindi potrebbero sostenere maggiori costi di marketing. Il vero problema, tuttavia, non sono i costi, ma una possibile riduzione dei fatturati, in quanto le imprese locali avranno maggiore forza per imporre politiche autoctone disviluppo sollecitando a loro favore il ceto politico che si alimenta a livello locale del loro radicamento territoriale. Questa visione di carattere feudale è il vero nemico dell’autonomia differenziata, dando l’illusione in un primo momento di un vantaggio, ma successivamente determinando uno svantaggio perché le altre Regioni tenderanno a loro volta a chiudersi e a difendere i loro privilegi. Un’ altra considerazione riguarda i rapporti con il sistema bancario, oggi soprattutto a livello nazionale con trasferimento di fondi dal Sud al Nord del Paese e contassi più alti. Sicuramente le nuove visioni localistiche dovranno portare a riconsiderare anche il ruolo delle banche locali, rispetto a quelle nazionali, per garantire un migliore e più adeguato mercato del credito».
Il turismo può essere declinato in diverse modalità. È un valore aggiunto oppure rischia di diventare un problema nella comunicazione all’estero dell’offerta turistica Italia?
«Il turismo già aveva una sua articolazione territoriale e potestà regionali. L’Italia non ha mai realizzato una politica turistica unitaria e nazionale, salvo piani del turismo velleitari, pronunciamenti e tentativi di creare portali, la vera promozione turistica dell’Italia resta la sua storia millenaria, le comunità italiane sparse nel mondo e la qualità degli operatori turistici. Il tessuto imprenditoriale del settore turistico resta troppo sfilacciato e con livello di prestazioni molto diseguali a livello territoriale. Questa sfilacciatura condiziona fortemente l’incoming e fino ad oggi le regioni, pur avendo una potestà molto ampia, non hanno saputo risolvere il problema. L’autonomia non sarà certamente l’ancora di salvezza. Abbiamo tuttavia situazioni come la Sicilia che, pur avendo autonomia dall’avvento della Repubblica, pur possedendo bellezze culturali e paesaggistiche uniche non riesce a migliorare l’incoming. Sicuramente le infrastrutture carenti isolane giocano un ruolo primario, ma manca una base imprenditoriale diffusa in grado di alimentare una domanda. Lo stesso ragionamento può riguardare il Piemonte con le dovute differenze. L’autonomia differenziata potrà forse migliorare la costruzione di filiere turistiche, ma questo non sarà tanto merito della legge Calderoli, ma dell’iniziativa di imprenditori preparati e coraggiosi».
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