Così Eva Campi, specializzata in psicologia organizzativa, coautrice di un libro (Ayros)

Meta interrompe i programmi di inclusione e diversità, e come la società madre di Facebook e Instagram, anche McDonald’s, Walmart, Ford e Lowe’s, Amazon stanno smantellando o riducendo progetti ispirati a tali principi. Nel nostro Paese le aziende stanno seguendo quasi tutte le orme di Zuckerberg? Quante di loro hanno ancora strutture organizzative in grado di garantire a tutte le persone le stesse possibilità?
Il punto lo facciamo con Eva Campi (in foto, specializzata in psicologia organizzativa e nell’area della gestione delle risorse umane e della formazione in ambito internazionale) che, con Veronica Giovale, (specializzata in etica pubblica, roboetica e teoria della complessità, inclusione e bioetica) e Consuelo Sironi (specializzata in tematiche del cambiamento culturale), ha scritto un libro, pubblicato da Ayros, con il titolo: “Questioni di un certo genere. Alleanze – il dna della nuova cultura aziendale”. Un lavoro con cui le tre autrici, partners di Newton Spa, newton.it, si concentrano soprattutto sulla disparità di genere e mandano un messaggio: “La leadership è per sua natura plurale. Solo attraverso la messa a sistema di una pluralità di modelli di leadership potremo facilitare la nostra evoluzione culturale nella direzione dell’equità”.
Ma chiediamo a Eva Campi perché continuare a investire sui programmi Dei.
Il caso americano è complesso. C’è chi ha implementato i programmi DEI fino ad oggi come un make up necessario, ma non sostanziale e chi ci ha creduto sul serio. Nel 2019 Mark Zuckerberg cambiò immagine di profilo della sua pagina Facebook, pubblicando una foto arcobaleno. L’intento era celebrare la decisione della Corte suprema degli Stati Uniti, che si era espressa contro i divieti ai matrimoni gay, rendendoli legali nei 50 Stati dell’unione. Oggi le sue posizioni sono completamente capovolte. Uno dei temi è senza dubbio la polarizzazione WOKE e NO-woke, che vede contrapporsi due realtà del Paese che, anche per numeri, è spaccato a metà. Ricordiamoci che Trump ha vinto, ma con uno scarto non considerevole rispetto alla Harris. Già prima delle elezioni la sigla DEI era scomparsa nei risultati di business di molte di queste aziende. Evidentemente, si subodorava il trend, sentivano l’aria che stava tirando. Non c’è dubbio che il tema sia politico ed economico: aziende di servizio e simboli americani per antonomasia cercano di ingraziarsi il Presidente? È la cosa più scontata, però, molto veritiera. Ma non sarà così facile cancellare ciò che è stato proclamato fino ad oggi. Secondo il sito 404 Media, 404media.co, ad esempio, l’annuncio di Zuckerberg ha creato caos totale interno all’azienda. E anche il board di Apple in questo periodo è alle prese con pressioni che ha rimandato al mittente. Vedremo come si evolverà la tendenza. I programmi DEI hanno lo scopo di migliorare le condizioni di lavoro delle persone. Dei vantaggi beneficiano tutti. Ma se diventano solo proclami scatenano resistenze. In Italia stiamo vedendo una situazione un po’ da stand by. Alcune aziende stanno ridimensionando budget e risorse investite in questi programmi, altre, invece, raddoppiano gli investimenti. Ora è il tempo di vedere chi ha operato puntando sull’inclusione autentica. E non è un caso che le aziende maggiormente esposte alla diversità di fatto non abbiano dubbi sulla necessità di costruire scenari lavorativi equi per tutti.
I programmi Dei sono troppo costosi, molto divisivi o contrari al merito? Perchè c’è ostilità?
Possiamo ricollegarci alla domanda precedente, ricordando che la polarizzazione è una semplificazione della realtà, sempre di facile propaganda, ma abbastanza facile da smascherare. Dire che i programmi DEI cancellano il merito è l’estrema difesa di categorie privilegiate, le quali, vedendo venir meno i bias che hanno mantenuto il loro privilegio, si arroccano su queste posizioni per non accettare una competizione equa, basata sulle competenze e non sugli stereotipi inconsapevoli. È vero che, al momento, le cause legali alla rovescia stanno aumentando, ma buttiamo via l’acqua sporca ed il bambino?
Si possono quantificare i benefici dei programmi Dei sulle aziende a livello internazionale e si può sostenere che siano garanzia di produttività?
Secondo McKinsey & Company, le aziende nel primo quartile per diversità di genere nei team esecutivi hanno il 21% in più di probabilità di ottenere risultati migliori in termini di redditività e quelle nel primo quartile per diversità etnica hanno il 33% in più di probabilità di avere una redditività leader nel settore. Oltre a ciò c’è una riduzione del 30% del rischio. Di conseguenza, i programmi DEI non di facciata, ma di sostanza, sono una variabile correlata a questo risultato.
Cosa prevede che possa succedere in Europa e quale gruppo di persone verrebbe danneggiato dalla eventuale riduzione di politiche inclusive?
Tutte le cosiddette minoranze. Nel momento in cui la sensibilizzazione sul tema si ridimensiona, a rischio siamo tutti noi. Nella vita le condizioni cambiano rapidamente. Ad esempio, la salute o la genitorialità ci portano a cambiare le nostre condizioni di lavoro ed esistenza. Ovvio che potremmo non essere più i modelli, gli esempi da seguire. L’inclusione è un modo di vedere la vita e la società, non significa proteggere qualcuno o fare favori a qualcuno. E’ creare le condizioni affinché vengano messe al centro la persona e le sue competenze, quindi quello che ognuno sa fare, non quello che è. L’equità è un concetto fragile che spesso viene confuso con il buonismo. In realtà, fare i conti con i bias di sistema è molto difficile e anche doloroso.
Parità di genere: soddisfatta del lavoro fatto dalla maggior parte delle aziende italiane? C’è una realtà modello?
In generale in Italia si sta facendo molto, anche sull’onda della certificazione di genere. I dati delle aziende virtuose sono pubblici. Dobbiamo considerare il numero delle donne nelle posizioni di vertice e decisionali – con portafoglio, soprattutto. Il tema per l’Italia sono le piccole e medie imprese. Ancora troppo spesso, infatti, mi capita di assistere a passaggi di testimone dell’azienda di famiglia al figlio maschio per tradizione. Non si pensa minimamente che una figlia potrebbe essere un valido sostituto. Spesso poi, non si considera l’alleanza tra generi, anche in famiglia. Eppure l’equità di genere inizia da lì.
Cinzia Ficco